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Cassazione civile Sez. Lavoro sentenza n. 11039 del 12 maggio 2006

Cassazione civile Sez. Lavoro sentenza n. 11039 del 12 maggio 2006

Testo massima n. 1

Il danno biologico – inteso come lesione dell’integrità psico-fisica, suscettibile di valutazione medico-legale, della persona – consiste nelle ripercussioni negative, di carattere non patrimoniale e diverse dalla mera sofferenza psichica, della suddetta lesione per l’intera durata della vita residua del soggetto leso, nel caso di invalidità permanente, oppure, nell’ipotesi di invalidità temporanea, finché la malattia perduri. Il danno morale costituisce, invece, autonoma ipotesi di danno non patrimoniale risarcibile al verificarsi di determinati presupposti, collegato intimamente all’entità ed intensità della sofferenza e dotato di piena autonomia ontologica rispetto al danno biologico, con la conseguenza che, nella determinazione della misura del suo risarcimento, il giudice non può limitarsi ad attribuire al danneggiato una quota parte del danno biologico, ma deve procedere a liquidare autonomamente il risarcimento atto a riparare la lesione dell’integrità morale, adeguando i parametri del risarcimento alla predetta entità della sofferenza e del dolore, oltre che alla lesione della dignità della persona.

Testo massima n. 2

Il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato [ art. 112 c.p.c. ] — come il principio del tantum devolutum quantum appellatum [ artt. 434 e 437 c.p.c. ] — non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti, autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonché in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed, in genere, all’applicazione di una norma giuridica, diversa da quella invocata dall’istante, ma implica tuttavia il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene della vita — diverso da quello richiesto [ petitum mediato ] — oppure di emettere qualsiasi pronuncia — su domanda nuova, quanto a causa petendi — che non si fondi, cioè, sui fatti ritualmente dedotti o, comunque, acquisiti al processo — anche se ricostruiti o giuridicamente qualificati dal giudice in modo diverso rispetto alle prospettazioni di parte — ma su elementi di fatto, che non siano, invece, ritualmente acquisiti come oggetto del contraddittorio. Coerentemente, il principio — secondo cui l’interpretazione di qualsiasi domanda, eccezione o deduzione di parte dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice del merito — non trova applicazione quando si assuma che l’accertamento del giudice di merito, appunto, abbia determinato un vizio — che sia riconducibile alla violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato oppure dell’effetto devolutivo dell’appello — trattandosi, in tale caso, della denuncia di un error in procedendo, in relazione al quale la Corte di cassazione è giudice anche del fatto ed ha, quindi, il potere-dovere di procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali.

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