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Cassazione Penale 23 maggio 2012 n.19439 sulle terre e rocce da scavo

Cassazione Penale 23 maggio 2012 n.19439 sulle terre e rocce da scavo

Terre e rocce da scavo – Definizione di sottoprodotto – Condizioni – D.Lgs. n. 205/2010 – Artt. 184-bis e 186 D.Lgs. n. 152/2006 – Progetto soggetto a VIA – Utilizzazione come sottoprodotti – Condizioni – Fattispecie – DANNO AMBIENTALE – ASSOCIAZIONI E COMITATI – Pregiudizi all’ambiente – Associazione ambientaliste o persona singola – Risarcibilità del danno patrimoniale o non patrimoniale – Normativa speciale e diritto dei soggetti danneggiati – Legittimazione a costituirsi parte civile – Artt. 311, 318 del D.Lgs. n. 152/2006 – Dir. 2004/35/CE – Artt. 2043 e 2059 cod. civ. – Art. 185, 2c., cod. pen.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

ha pronunciato la seguente: SENTENZA
sul ricorso proposto da:

1) (OMISSIS) N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 1107/2008 TRIBUNALE di VICENZA, del 09/02/2011;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/01/2012 la relazione fatta dal Consigliere Dott. ALDO FIALE;

udito il P.G. in persona del Dott. VOLPE Giuseppe che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito, per la parte civile, l’avv. (OMISSIS), quale sost. processuale dell’avv. (OMISSIS), che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il difensore, avv. (OMISSIS) quale sost. processuale dell’avv. (OMISSIS), il quale ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

Il Tribunale di Vicenza, con sentenza del 9.2.2011, ha affermato la responsabilita’ penale di (OMISSIS) in ordine alla contravvenzione di cui:

– al Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 256 (per avere – quale legale rappresentante della s.r.l. ” (OMISSIS)” – realizzato un deposito incontrollato di rifiuti, in assenza di ogni autorizzazione, collocando su un’area di mt. 40 x io un cumulo di materiale roccioso da escavazione – in (OMISSIS)) e, riconosciute circostanze attenuanti generiche, lo ha condannato afta pena di euro 2.000,00 di ammenda ed al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile “(OMISSIS) – Onlus”, liquidato in euro 600,00.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore del (OMISSIS), il quale – sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione.

– ha eccepito:

– la erroneita’ della riconosciuta legittimazione a costituirsi parte civite della Onlus “(OMISSIS)” e la illegittimita’ della intervenuta condanna al risarcimento del danno non patrimoniale che la stessa avrebbe subito.

Secondo la prospettazione del ricorrente, le associazioni di protezione ambientale, dopo la modificazione alla Legge n. 349 del 1986, articolo 18 operata dal Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 318, possono intervenire nel processo penale soltanto ai sensi degli articoli 91 e segg. cod. proc. pen., mentre ne sarebbe preclusa la costituzione di parte civile, difettando in capo alle stesse la titolarita’ di un diritto soggettivo che le legittimi all’esercizio dell’azione risarcitoria. Nella specie, inoltre, non sarebbe ravvisabile alcun pregiudizio, anche di natura non patrimoniale, concretizzatosi in danno di (OMISSIS);

– la inconfigurabilita’ del reato contestato, perche’ l’imputato non avrebbe utilizzato te terre e le rocce da scavo in maniera difforme a quanto previsto in un progetto approvato dalla P.A., ma avrebbe semplicemente omesso di comunicare all’amministrazione le modalita’ di riutilizzo del materiale;

– la violazione del principio di offensivita’, che deve, comunque e in ogni caso, ispirare il giudice del merito nell’interpretazione della norma incriminatrice.

Il materiale oggetto di contestazione era, secondo le argomentazioni del consulente tecnico della difesa, “ferra pulitissima, sicuramente terreno vergine su cui non c’e’ stata mai alcuna forma di contaminazione nemmeno a tracce”, sicche’ e’ evidente che il bene ambiente non e’ stato in alcun modo lesionato ne’ messo in pericolo.

Il difensore poi – con “motivi aggiunti” depositati il 2.1.2012 – ha ulteriormente prospettato l’insussistenza del reato anche alla stregua delle previsioni del Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 185, u.c., nel testo in vigore dal 5 ottobre 2011, con riferimento agli articoli 184-bis e 184-ter di nuova introduzione.

Il patrono di parte civile, in data 12.1.2012, ha deposito memoria rivolta a confutare le argomentazioni svolte in difesa dell’imputato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I motivi di ricorso riferiti all’affermazione della responsabilita’ dell’imputato devono essere rigettati, perche’ infondati.

2. Il (OMISSIS) e’ stato condannato per avere – senza autorizzazione – depositato su un fondo sito nel Comune di (OMISSIS) circa 650 mc. di materiale, prevalentemente costituito da pietrisco, proveniente da uno scavo effettuato, da soggetto diverso ed in localita’ diversa (Comune di (OMISSIS)), in occasione della realizzazione delle fondazioni di un edificio.

Secondo la prospettazione difensiva, detto materiale era destinato ad essere impiegato, come sottofondo, per la costruzione di un capannone agricolo.

3. La pronunzia di condanna si fonda essenzialmente sulla ritenuta necessita’ dell’autorizzazione per il deposito, essendo stata accertata la insussistenza di un progetto di riutilizzo ambientalmente compatibile del materiale depositato.

3.1 Va rilevato, in proposito, che il Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, articolo 186, nella formulazione originaria (quella applicabile ratione tempore alla vicenda in esame), stabiliva che potevano ritenersi esclusi dalla categoria dei rifiuti e, quindi, dall’applicazione della Parte 4 dello stesso Decreto Legislativo n. 152 del 2006, i materiali previsti al comma 1 (terre e rocce da scavo, anche di gallerie, ed i residui della lavorazione della pietra destinati all’effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, anche eventualmente contaminati durante il ciclo produttivo da sostanze inquinanti derivanti dalle attivita’ di escavazione, perforazione o costruzione) qualora gli stessi fossero utilizzati senza trasformazioni preliminari – secondo quanto previsto nel progetto sottoposto a VIA ovvero, qualora non sottoposto a VIA, secondo il progetto approvato dall’autorita’ amministrativa competente e, ove espressamente previsto, previo parere dell’ARPA – e sempreche’ la composizione media dell’intera massa non presentasse una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti.

Ai sensi del comma 4, articolo 186, il rispetto dei limiti doveva essere verificato mediante la caratterizzazione iniziale, da ripetersi ogni qualvolta si verificassero variazioni del processo di produzione o della natura degli stessi, e la verifica poteva avvenire nel sito di produzione o, in alternativa, sui siti di deposito nel caso in cui non fosse possibile l’utilizzo immediato.

Il riutilizzo doveva avvenire, in ogni caso, entro 6 mesi dall’avvenuto deposito, salvo proroga su istanza motivata dell’interessato.

Tenuto conto della formulazione originaria del Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 186 (dianzi succintamente delineata), rileva il Collegio che terre e le rocce, quando venivano portate nel sito di deposito, anteriormente alla loro caratterizzazione, erano ancora rifiuti, sicche’ il sito di deposito doveva essere autorizzato come messa in riserva.

Nella vicenda in esame (ove un’autorizzazione siffatta non risulta rilasciata) le modalita’ di utilizzo del materiale depositato, inoltre, non erano state indicate in un progetto sottoposto ad approvazione urbanistico-edilizia.

Esattamente, dunque, il Tribunale ha ritenuto carente anche la condizione dello “effettivo utilizzo” secondo la nozione fornita dalla previsione della norma applicata.

3.2 Non puo’ considerarsi disciplina piu’ favorevole – che, se fosse tale, sarebbe applicabile alla presente fattispecie ai sensi dell’articolo 2 c.p., comma 4, – la normativa risultante dalle modifiche apportate dal Decreto Legislativo n. 4 del 2008 al Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 186, che ha subordinato la possibilita’ di utilizzare le terre e le rocce da scavo per reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati, laddove siano state ottenute come sottoprodotti e, quindi, nella sussistenza delle seguenti condizioni:

– impiego diretto nell’ambito di opere o interventi preventivamente individuati e definiti;

– certezza del loro integrale utilizzo fino dalla fase della produzione;

– possibilita’ tecnica dell’utilizzo integrale della parte destinata a riutilizzo senza necessita’ di preventivo trattamento o di trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualita’ ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e, piu’ in generale, ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli ordinariamente consentiti ed autorizzati per il sito dove sia destinata ad essere utilizzate;

– garanzia di un elevato livello di tutela ambientate;

– accertamento della mancata provenienza da siti contaminati o sottoposti ad interventi di bonifica;

– esistenza di caratteristiche chimiche e chimico-fisiche tali che il loro impiego nel sito prescelto non determini rischi per la salute e per la qualita’ delle matrici ambientali interessate ed avvenga nel rispetto delle norme di tutela delle acque superficiali e sotterranee, della flora, della fauna, degli habitat e delle aree naturali protette. In particolare deve essere dimostrato che il materiale da utilizzare non e’ contaminato con riferimento alla destinazione d’uso del medesimo, nonche’ la compatibilita’ di detto materiale con il sito di destinazione;

– dimostrazione della certezza dell’integrale utilizzo.

La sussistenza delle condizioni per la utilizzazione come sottoprodotti delle terre e delle rocce da scavo deve risultare da apposito progetto (per le opere soggette a VIA ed AIA) ovvero dalla documentazione allegata agli elaborati progettuali nei casi di impiego in opere sottoposte a permesso di costruire, DIA o SCIA. Nel contesto di detta documentazione devono essere anche indicati i tempi dell’eventuale deposito in attesa dell’utilizzo.

Le autorita’ preposte ai procedimenti di formazione dei titoli abilitativi edilizi devono verificare la sussistenza delle condizioni per la riutilizzazione come sottoprodotti e, ove tali condizioni non siano verificate nelle forme prescritte, le terre e te rocce da scavo devono essere gestite come rifiuti.

Anche in relazione a tale disciplina cio’ che manca – nella fattispecie in esame – e’ la certezza del riutilizzo integrale nell’ambito di un’opera previamente individuata e definita, nonche’ la presenza di esauriente documentazione allegata ad elaborati presentati per il conseguimento di un titolo abitativo edilizio con indicazione dei tempi previsti per il deposito in attesa dell’utilizzo.

3.3 Una normativa piu’ favorevole neppure si rinviene nel Decreto Legislativo 3 dicembre 2010, n. 205, in seguito ai quale viene definito sottoprodotto “qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa le condizioni di cui all’articolo 184-bis, comma 1, o che rispetta i criteri stabiliti in base all’articolo 184-bis, comma 2″ e cio’ sempre per la mancanza della certezza dell’utilizzo e per la mancata ottemperanza alle prescrizioni poste dal Decreto Legislativo n. 152 del 2006, modificato articolo 186, commi 3 e 4. Di tale articolo, infatti, il Decreto Legislativo n. 205 del 2010 ha soltanto previsto la futura abrogazione ad opera di un decreto ministeriale (non ancora emanato) che dovra’ definire i criteri qualitativi e quantitativi dei sottoprodotti e, una volta adottato tale decreto, trovera’ applicazione solo lo stesso Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 184-bis, disciplinante i sottoprodotti in generale.

Non trova invece applicazione, nella specie, il Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 185, che disciplina il riutilizzo del materiale escavato nel corso di attivita’ di costruzione nel medesimo cantiere di produzione, cioe’ nello stesso sito in cui e’ stato escavato.

4. Quanto alla lamentata violazione del principio di necessaria offensivita’ della condotta, il Collegio – tenuto conto dei criteri affermati dalla Corte Costituzionale nelle sentenze 24.7.1995, n. 370, 11.7.2000, n. 263, 21.11.2000, n. 519 e 7.7.2005, n. 265 – rileva che, nella specie, non viene posto in discussione il parametro dell’offensivita’ in astratto, riconduciate al 2 comma dell’articolo 25 Cost. (intesa come necessita’ che la condotta penalmente perseguita sia suscettibile di ledere o porre in pericolo un bene o interesse di rilievo costituzionale), bensi’ quello dell’offensivita’ in concreto, da ravvisarsi almeno in grado minimo nella condotta tenuta dall’agente, che costituisce un criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice del merito, tenuto ad accertare, specialmente nell’interpretazione dei reati formali e di pericolo presunto, che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato dalla disposizione incriminatrice.

Nei reati di pericolo l’offesa al bene giuridico protetto consiste in un nocumento potenziale dello stesso, che viene soltanto minacciato, e – come evidenziato da autorevole dottrina – puo’ parlarsi di “pericolo” quando, secondo un giudizio ex ante e secondo la migliore scienza ed esperienza, appare probabile che dalla condotta consegua l’evento lesivo.

In conformita’ alla funzione preventiva dei reati di pericolo, e’ pertanto essenziale che la valutazione debba essere retrocessa al momento della condotta (giudizio prognostico ex ante).

Alla stregua di tali principi, non puo’ ritenersi che, nella specie, la sanzione penale sia stata inflitta per una condotta inosservante totalmente inoffensiva, in quanto nelle omissioni riscontrate in concreto deve ritenersi contenuto un disvalore tale da potere sicuramente integrare la messa in pericolo dell’ambiente (oltre che della gestione in mano pubblica della risorsa ambientale) quale bene finale tutelato.

Non puo’ parlarsi, infatti, di infrazioni aventi natura esclusivamente formale, poiche’ sicuramente la carenza del prescritto controllo amministrativo preventivo sullo svolgimento dell’attivita’ ha connotazioni intrinseche di rischio, in quanto e’ in grado di mettere in pericolo la salubrita’ dell’ambiente.

Anche la Corte di Giustizia – con la sentenza 18.12.2007, causa C-194/05 – ha avuto occasione di rilevare che le operazioni di deposito delle terre e delle rocce da scavo in vista di un successivo riutilizzo effettivo sono “atte a configurare un onere per il detentore e sono potenzialmente fonte di quei danni per l’ambiente” che la disciplina comunitaria sui rifiuti “mira specificamente a limitare”.

Le argomentazioni svolte sul punto in ricorso evocano, invece, un giudizio ex post (per l’assenza, successivamente riscontrata, di qualsiasi forma di contaminazione nel materiale oggetto di contestazione), che priva il reato di pericolo della sua funzione di tutela anticipata, facendo dipendere la presenza o assenza del pericolo stesso dalla presenza o dall’assenza della lesione in un momento in cui l’evento lesivo non e’ piu’ probabile ma si e’ verificato o non verificato.

5. Fondate sono, invece, le doglianze rivolte a contestare la legittimita’ della condanna al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile “(OMISSIS) – Onlus”.

5.1 La Legge 8 luglio 1986, n. 349, articolo 18 (istitutiva del Ministero dell’ambiente) ha introdotto nel nostro ordinamento, quale forma particolare di tutela, l’obbligo di risarcire il danno cagionato all’ambiente (alterazione, deterioramento o distruzione anche parziale) a seguito di una qualsiasi attivita’, dolosa o colposa, compiuta in violazione di un dispositivo di legge o di un provvedimento adottato in base a legge.

E’ stata cosi’ prevista una peculiare responsabilita’ di tipo extracontrattuale (aquiliana) connessa a fatti, dolosi o colposi, cagionanti un danno “ingiusto” all’ambiente, dove l’ingiustizia e’ stata correlata alla violazione di una disposizione di legge e dove il soggetto titolare del risarcimento e’ stato individuato nello Stato.

Il citato articolo 18 prescriveva che l’azione di risarcimento dei danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, potesse essere promossa dallo Stato, nonche’ dagli enti territoriali sui quali incidevano i beni oggetto del fatto lesivo (comma 3).

La strada risarcitoria restava aperta ai privati solo ove essi lamentassero la lesione di un bene individuale compromesso dal degrado ambientale, sia esso la salute che il diritto di proprieta’ o altro diritto reale.

5.2 Il Decreto Legislativo n. 152 del 2006 (articolo 318) ha espressamente abrogato (ad eccezione del comma 5, che riconosce alle associazioni ambientaliste il diritto di intervenire nei giudizi per danno ambientale) la Legge n. 349 del 1986, articolo 18 e, nell’articolo 300 (commi 1 e 2), ha definito la nozione di “danno ambientale” con riferimento a quella posta, in ambito comunitario, dalla direttiva 2004/35/CE.

Lo stesso Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 311 riserva allo Stato, ed in particolare al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, il potere di agire, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale.

Ai sensi del successivo articolo 313, comma 7, comunque, “resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella foro salute o nei beni di loro proprieta’, di agire in giudizio nei confronti dei responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi”.

5.3 La normativa speciale dal “danno ambientale” dianzi descritta si affianca (non sussistendo alcuna antinomia reale) alla disciplina generale del danno posta dal codice civile, sicche’ le associazioni ambientaliste – pure dopo l’abrogazione delle previsioni di legge che le autorizzavano a proporre, in caso di inerzia degli enti territoriali, le azioni risarcitorie per danno ambientale (Decreto Legislativo n. 267 del 2000, articolo 9, comma 3, abrogato dal Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 318) – sono legittimate alla costituzione di parte civile “ture proprio”, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all’ambiente, per il risarcimento non del danno all’ambiente come interesse pubblico, bensi’ (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale (vedi Cass., sez. 3: 3.10.2006, n. 36514, Censi; 11.2.2010, n. 14828, De Flammineis).

Le associazioni ambientaliste, dunque, sono legittimate a costituirsi parte civile quando perseguano un interesse non caratterizzato da un mero collegamento con quello pubblico, bensi’ concretizzatosi in una realta’ storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo: in tal caso l’interesse all’ambiente cessa di essere diffuso e diviene soggettivizzato e personificato (vedi Cass., sez. 3: 25.1.2011, Pelioni; 21.6.2011, Memmo).

Ritiene il Collegio al riguardo (confermando l’orientamento espresso da questa 3 Sezione nella sentenza 21.6.2011, Memmo e nella consapevolezza delle non convergenti posizioni enunciate nelle sentenze n. 14828/20010 e n. 41015/2010, contenente quest’ultima il riferimento ai solo “danni patrimoniali”) che il danno risarcibile secondo la disciplina civilistica possa configurarsi anche sub specie del pregiudizio arrecato all’attivita’ concretamente svolta dall’associazione ambientalista per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo. In tali ipotesi potrebbe identificarsi un nocumento suscettibile anche di valutazione economica in considerazione degli eventuali esborsi finanziari sostenuti dall’ente per l’espletamento dell’attivita’ di tutela.

La possibilita’ di risarcimento in favore dell’associazione ambientalista, in ogni caso, non deve ritenersi limitata all’ambito patrimoniale di cui all’articolo 2043 cod. civ., poiche’ l’articolo 185 c.p., comma 2, – che costituisce l’ipotesi piu’ importante “determinata dalla legge” per la risarcibilita’ del danno non patrimoniale ex articolo 2059 cod. civ. – dispone che ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale” obbliga il colpevole al risarcimento nei confronti non solo del soggetto passivo del reato stesso, ma di chiunque possa ritenersi “danneggiato” per avere riportato un pregiudizio eziologicamente riferibile all’azione od omissione del soggetto attivo.

5.4 Tanto premesso, va rilevato che la Corte di merito – nella vicenda in esame – ha ravvisato l’esistenza di un pregiudizio per la parte civile “(OMISSIS) – Onlus”, testualmente argomentando che “La violazione dell’obbligo di conformare il proprio operato alla normativa sulla gestione dei rifiuti costituisce una fonte di danno per le associazioni ambientali che fanno della tutela dell’ambiente il proprio obiettivo. La condotta di imprenditori che non osservano con scrupolo le prescrizioni imposte dalla legge e dagli atti amministrativi autorizzativi pone, per cio’ solo, a repentaglio l’efficienza del sistema previsto per la prevenzione e la riduzione dell’inquinamento ed in tal modo danneggia l’attivita’ dei corpi sociali che si propongono di sostenere e rendere quanto piu’ possibile efficace il detto sistema. Per queste ragioni spetta a (OMISSIS) il risarcimento del danno non patrimoniale riportato, anche se dalla trasgressione in esame non risulta siano derivati in concreto fenomeni permanenti di inquinamento”.

Tali enunciazioni, pero’, non si conformano ai principi dianzi enunciati, in quanto omettono di individuare quali siano i danni direttamente subiti dalla parte civile (pur legittimamente costituita): danni che, come si e’ detto dianzi, devono essere diretti e specifici, nonche’ ulteriori e diversi rispetto a quello della lesione dell’ambiente come bene pubblico.

6. La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata limitatamente alle statuizioni civili con rinvio al giudice civile competente in grado di appello, mentre devono essere rigettati tutti gli altri motivi di ricorso.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

annulla la sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni civili, con rinvio al giudice civile competente in grado di appello.

Rigetta il ricorso nel resto.

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