Art. 412 – Codice di procedura civile – Risoluzione arbitrale della controversia
In qualunque fase del tentativo di conciliazione, o al suo termine in caso di mancata riuscita, le parti possono indicare la soluzione, anche parziale, sulla quale concordano, riconoscendo, quando è possibile, il credito che spetta al lavoratore, e possono accordarsi per la risoluzione della lite, affidando alla commissione di conciliazione il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia.
Nel conferire il mandato per la risoluzione arbitrale della controversia, le parti devono indicare:
1) il termine per l'emanazione del lodo, che non può comunque superare i sessanta giorni dal conferimento del mandato, spirato il quale l'incarico deve intendersi revocato;
2) le norme invocate dalle parti a sostegno delle loro pretese e l'eventuale richiesta di decidere secondo equità, nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari.
Il lodo emanato a conclusione dell'arbitrato, sottoscritto dagli arbitri e autenticato, produce tra le parti gli effetti di cui all'articolo 1372 e all'articolo 2113, quarto comma, del codice civile.
Il lodo è impugnabile ai sensi dell'articolo 808-ter. Sulle controversie aventi ad oggetto la validità del lodo arbitrale irrituale, ai sensi dell'articolo 808-ter, decide in unico grado il tribunale, in funzione di giudice del lavoro, nella cui circoscrizione è la sede dell'arbitrato. Il ricorso è depositato entro il termine di trenta giorni dalla notificazione del lodo. Decorso tale termine, o se le parti hanno comunque dichiarato per iscritto di accettare la decisione arbitrale, ovvero se il ricorso è stato respinto dal tribunale, il lodo è depositato nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è la sede dell'arbitrato. Il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del lodo arbitrale, lo dichiara esecutivo con decreto.
Le parole ricomprese fra parentesi quadre sono state abrogate.
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Massime correlate
Cass. civ. n. 10065/2024
La conciliazione in sede sindacale, ai sensi dell'art. 411, comma 3, c.p.c., non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest'ultima essere annoverata tra le sedi protette mancando del carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente all'assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore.
Cass. civ. n. 8456/2024
E' annullabile la donazione effettuata da persona sottoposta ad amministrazione di sostegno quando il giudice tutelare, con il decreto di cui all'art. 405 c.c., o successivamente anche d'ufficio, abbia previsto che gli atti di straordinaria amministrazione possano essere validamente eseguiti soltanto con l'assistenza dell'amministratore di sostegno, senza che al riguardo rilevi la conoscenza che il donatario abbia dell'apertura della misura di protezione.
Cass. civ. n. 1975/2024
In tema di conciliazione sindacale, la sottoscrizione dell'accordo presso la sede di un sindacato, in conformità alle previsioni dell'art. 412-ter c.p.c. e del contratto collettivo applicabile, non costituisce un requisito formale, ma funzionale, in quanto volto ad assicurare che la volontà del lavoratore sia espressa in modo genuino e non coartato; ne consegue che la stipula in una sede diversa non produce alcun effetto invalidante sulla transazione se il datore di lavoro prova che il dipendente ha avuto, grazie all'effettiva assistenza sindacale, piena consapevolezza delle dichiarazioni negoziali sottoscritte.
Cass. civ. n. 25796/2023
In tema di conciliazione in sede sindacale, ai fini dell'inoppugnabilità delle rinunce e delle transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, è necessario che l'accordo sia stato raggiunto con un'assistenza sindacale effettiva, tale da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura. (Nella specie la S.C. ha escluso, la riconducibilità al novero delle conciliazioni non impugnabili di cui all'art. 2113, ult. comma, c.c., di un accordo stipulato nella sede della Prefettura, nonostante la partecipazione di un rappresentante sindacale del lavoratore, avendo il giudice di merito, con valutazione insindacabile in sede di legittimità, escluso l'effettiva assistenza, anche alla luce della sede non prettamente sindacale di sottoscrizione dell'accordo e della mancanza di previsione di modalità contrattuali collettive cui parametrare la valutazione, senza tuttavia in astratto escludere la possibilità di sottoscrizione di detto atto anche in tale luogo).
Cass. civ. n. 18110/2015
La domanda di risarcimento per danno da "mobbing", avanzata dal socio di una società cooperativa nei confronti della compagine sociale in relazione a prestazioni lavorative ricomprese nell'oggetto sociale, rientra nella competenza funzionale del giudice del lavoro anche quando i rapporti di lavoro instaurati siano temporanei, permanendo la distinzione con il rapporto sociale, sicché, in forza dell'art. 806 c.p.c. (nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 40 del 2006, "ratione temporis" applicabile), la clausola compromissoria, contenuta nello statuto della cooperativa e non prevista da accordi o contratti collettivi, non è idonea a impedire la valida adizione dell'autorità giudiziaria.
Cass. civ. n. 381/1997
È costituzionalmente illegittimo l'art. 18 del regio decreto legge 1 luglio 1926 n. 2290 ("Ordinamento dei magazzini generali"), convertito dalla legge 9 giugno 1927 n. 1158, il quale, stabilendo che le "controversie" insorte tra gli esercenti i magazzini generali ed i depositanti, in ordine all'applicazione delle tariffe, "saranno risolte dal competente Consiglio provinciale dell'economia" (ora Camera di commercio), senza consentire alle parti di optare per la risoluzione in via giudiziaria delle controversie medesime, prevede una forma di arbitrato obbligatorio e, in quanto tale, costituzionalmente illegittimo per contrasto con gli artt. 24 e 102 della Costituzione, secondo il costante insegnamento della Corte (vedi, tra le altre, le sentenze n. 127 del 1977, n. 488 del 1991, n. 49 del 1994, n. 206 del 1994, n. 232 del 1994, n. 54 del 1996 e n. 152 del 1996).
Cass. civ. n. 152/1996
Illegittimità costituzionale dell'art. 16 della legge 10 dicembre 1981 n. 741 che ha sostituito l'art. 47 del D.P.R. n. 1063 del 1962, impugnato, in riferimento agli artt. 24 e 102 della Costituzione, nella parte in cui stabilisce che la competenza arbitrale non può essere derogata con atto unilaterale di ciascuno dei contraenti, bensì solo con una clausola inserita nel bando o nell'invito di gara, ovvero nel contratto in caso di trattativa privata, in quanto tale norma, rendendo di fatto obbligatoria la competenza arbitrale nelle controversie nascenti dai contratti di appalto di opere pubbliche, viola il principio costituzionale, secondo cui solo a fronte della concorde e specifica volontà delle parti sono consentite deroghe alla regola della statualità della giurisdizione.
Corte cost. n. 49/1994
Come la Corte ha già più volte affermato e nella specie va ribadito, l'arbitrato è costituzionalmente legittimo solo nell'ipotesi in cui la fonte dell'obbligatorietà sia conseguente alla concorde volontà delle parti di vincolarsi a derogare al fondamentale principio della statualità della giurisdizione. Conseguentemente va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 26, comma settimo, del D.L. 7 maggio 1980, n. 153, convertito in legge 7 luglio 1980, n. 299, nella parte in cui dispone che, in caso di mancato accordo tra il Comune ed il concessionario del servizio di pubbliche affissioni, relativamente alla revisione delle misure dell'aggio, del minimo garantito e del canone fisso convenute, nei contratti in corso, la revisione è demandata alla commissione arbitrale di cui al R.D.L. 25 gennaio 1931, n. 36, convertito nella legge 9 aprile 1931, n. 460.
Corte cost. n. 127/1977
Spetta al legislatore, con la previsione di procedure preliminari di carattere amministrativo (sent. n. 62 del 1968), con la istituzione di sezioni specializzate presso gli organi giudiziari (art. 102, secondo comma, Cost.) e con altri modi di intervento non contrastanti con la Costituzione, di ovviare agli eventuali inconvenienti cui si è inteso di far fronte con l'imposizione di arbitrati ex lege.
Corte cost. n. 174/1972
È costituzionalmente illegittimo l'art. 49, terzo comma, del contratto collettivo di lavoro 24 maggio 1956 per i dipendenti delle case di cura private, recepito dall'articolo unico del D.P.R. 14 luglio 1960 n. 1040, nella parte che fa decorrere il termine di decadenza per i reclami dei dipendenti medesimi dal giorno in cui il pagamento venga effettuato o omesso, anche per i rapporti di lavoro non considerati dalla legge 15 luglio 1966 n. 604, e successive modificazioni.
Corte cost. n. 63/1966
Sono costituzionalmente illegittimi, in riferimento all'articolo 36 Cost. l'art. 2948, n. 4, l'art. 2955, n. 2 e l'art. 2956, n. 1 c.c., limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro. Il precetto costituzionale ammette la prescrizione del diritto al salario, ma non ne consente il decorso finché permane il rapporto di lavoro durante il quale essa maschera spesso una rinunzia ad una parte dei propri diritti nel timore del recesso (licenziamento). Le norme indicate, anche se non si riferiscono al negozio di rinuncia, consentono che la prescrizione prenda inizio dal momento in cui matura il diritto ad ogni singola prestazione salariale. Pur in assenza di ostacoli giuridici a far valere il diritto al salario, sussistono peraltro ostacoli materiali, in quanto il lavoratore può essere indotto a non esercitare il proprio diritto per lo stesso motivo per cui molte volte è portato a rinunciarvi, cioè per timore del licenziamento. Ma l'art. 36 Cost. ha inteso vietare qualsiasi tipo di rinunzia, anche quella che in particolari situazioni può essere implicata nel mancato esercizio del proprio diritto e pertanto, nel fatto che si lasci decorrere la prescrizione. La rinunzia, quando è fatta durante il rapporto, non può essere considerata una libera espressione di volontà negoziale e la sua invalidità a tutela del contraente più debole è sancita dalla norma costituzionale.