Art. 822 – Codice di procedura civile – Norme per la deliberazione
Gli arbitri decidono secondo le norme di diritto, salvo che le parti li abbiano autorizzati con qualsiasi espressione a pronunciare secondo equità.
Quando gli arbitri sono chiamati a decidere secondo le norme di diritto, le parti, nella convenzione di arbitrato o con atto scritto anteriore all'instaurazione del giudizio arbitrale, possono indicare le norme o la legge straniera quale legge applicabile al merito della controversia. In mancanza, gli arbitri applicano le norme o la legge individuate ai sensi dei criteri di conflitto ritenuti applicabili.
Le parole ricomprese fra parentesi quadre sono state abrogate.
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Massime correlate
Cass. civ. n. 15162/2024
La Tosap trova applicazione nell'ipotesi di utilizzazione di strade comunali o provinciali per la realizzazione della rete autostradale da parte del concessionario, in quanto l'art. 38 del d.lgs. n. 507 del 1993 ha come presupposto impositivo qualsiasi occupazione di aree riconducibili al demanio comunale e provinciale e ricomprende, quindi, anche quelle che trovano fondamento nella legge, non spettando l'esenzione di cui all'art. 49, comma 1, lett. a), del predetto decreto, non essendo il concessionario soggetto annoverabile tra gli enti ivi indicati.
Cass. civ. n. 4914/2024
In ipotesi di abusiva costruzione su terreno demaniale, il positivo completamento della procedura di rilascio della concessione in sanatoria prevista dall'art. 32 della l. n. 47 del 1985. da accertarsi dal giudice di merito secondo i normali criteri di interpretazione dei contratti e degli atti amministrativi, supera l'originario difetto del titolo autorizzativo alla realizzazione del manufatto eretto dal privato su area di proprietà pubblica di talché al rilascio della concessione in sanatoria concernente un manufatto eretto su area demaniale consegue la configurabilità, in capo al soggetto che la ottenga, di un diritto reale sul bene, declinabile in termini di proprietà superficiaria, con esclusione dell'operatività del criterio dell'accessione.
Cass. civ. n. 46709/2023
Il reato di arbitraria occupazione di area demaniale postula l'instaurazione di un rapporto di fatto illegittimo, che esclude in tutto o in parte quello preesistente del soggetto pubblico e dal quale il privato trae un qualsiasi profitto. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso che potesse ritenersi legittimamente acquisita tramite alluvione, ex art. 941 cod. civ., la porzione di terreno prospiciente la riva di un fiume, trattandosi di bene appartenente al demanio necessario dello Stato, sottratto in assoluto alla proprietà privata, sicché la costruzione di opere su di esso costituiva occupazione arbitraria di fondo altrui). (Conf.: n. 865 del 1996,
Cass. civ. n. 25223/2023
In tema di demanio necessario marittimo, i bacini d'acqua salmastra possono dirsi demaniali o meno, alla stregua del criterio finalistico-funzionale, in base alla loro attitudine a servire agli usi del mare, sicché non è sufficiente la loro comunicazione con il mare, essendo necessario che ad essi possano estendersi le stesse utilizzazioni cui può adempiere il mare, con la conseguenza che sono demaniali quando sono prossimi o direttamente comunicanti col mare, alla stregua di un'appendice o accessione dello specchio d'acqua, essendoci anche destinazione all'uso pubblico, mentre sono di natura privata quando il canale sia tale da integrare solo una fonte di alimentazione dello specchio d'acqua lontano. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto appartenere al demanio marittimo necessario il bacino d'acqua salmastra venutosi a creare per effetto della irreversibile trasformazione dell'argine di un fiume, siccome posto immediatamente prima dello sbocco sul mare di quest'ultimo e collegato, senza sbarramenti, al tratto finale dello stesso e dunque al mare).
Cass. civ. n. 14269/2023
La sdemanializzazione può verificarsi anche senza l'adempimento delle formalità previste dalla legge, purché risulti da atti univoci, concludenti e positivi della P.A., incompatibili con la volontà di conservare la destinazione del bene all'uso pubblico; né il disuso da tempo immemorabile o l'inerzia dell'ente possono essere invocati come elementi indiziari dell'intenzione di far cessare tale destinazione, poiché, per la prova di ciò, è necessario che essi siano accompagnati da fatti concludenti e da circostanze così significative da rendere impossibile formulare altra ipotesi se non quella che la P.A. abbia definitivamente rinunziato al ripristino della pubblica funzione del bene medesimo. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la sdemanializzazione tacita di un'area adiacente a una casa cantoniera, pertinenziale rispetto a una dismessa linea ferroviaria, sulla quale il figlio dell'originaria titolare della concessione – poi revocata - aveva abusivamente realizzato una struttura in cui svolgeva attività di ristorazione, sul presupposto che il mero spostamento della linea ferroviaria non escludeva, di per sé, che il vecchio tracciato potesse essere ripristinato).
Cass. civ. n. 6909/2015
L'arbitrato irrituale non si configura come un giudizio necessario di equità nemmeno in epoca anteriore alla riforma introdotta dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, a seguito della quale trova applicazione l'art. 822 cod. proc. civ., ben potendo attribuirsi agli arbitri il vincolo a quantificare le spettanze delle parti "iuxta alligata et probata".
Cass. civ. n. 1183/2006
L'inammissibilita dell'impugnazione del lodo arbitrale per inosservanza di regole di diritto, ai sensi dell'art 829, secondo comma, c.p.c. nel caso in cui le parti abbiano autorizzato gli arbitri a decidere secondo equità, sussiste anche qualora gli arbitri abbiano in concreto applicato norme di legge, ritenendole corrispondenti alla soluzione equitativa della controversia, non risultando, per questo, trasformato l'arbitrato di equità in arbitrato di diritto.
Cass. civ. n. 15150/2003
Il principio di buona fede contrattuale, sancito dall'art. 1375 c.c., ha la portata di ampliare (ovvero di restringere) gli obblighi letteralmente assunti con il contratto nei casi, e nella misura in cui, farli valere nel loro tenore letterale contrasterebbe con detto principio, il quale opera essenzialmente come un criterio di reciprocità che deve essere osservato vicendevolmente dalle parti del rapporto obbligatorio.
Nell'interpretazione del contratto, il dato testuale, pur assumendo un rilievo fondamentale non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione del contenuto dell'accordo, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, il quale non può arrestarsi alla ricognizione del tenore letterale delle parole, ma deve estendersi alla considerazione di tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé «chiare» e non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un'espressione prima facie chiara può non apparire più tale, se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti.
Cass. civ. n. 6933/2003
Gli arbitri, autorizzati a pronunciare secondo equità ai sensi dell'art. 822 c.p.c., ben possono decidere secondo diritto allorché essi ritengano che diritto ed equità coincidano, senza che sia per essi necessario affermare e spiegare tale coincidenza, che, potendosi considerare presente in via generale, può desumersi anche implicitamente. L'esistenza di un vizio riconducibile alla violazione dei limiti del compromesso nell'arbitrato rituale può configurarsi quando gli arbitri neghino a priori l'esercizio di poteri equitativi, pur se conferiti, o se, pur riscontrando ed evidenziando una difformità tra il giudizio di equità e quello di diritto, pronuncino poi secondo diritto.
Ove gli arbitri siano autorizzati a pronunciare secondo equità, non può trovare ingresso come motivo di impugnazione del lodo l'error in iudicando. (Nella specie il ricorrente, pur affermando di avere impugnato il lodo assumendo il superamento dei limiti del compromesso, in realtà si era doluto della violazione del principio di diritto che vieta l'ingiustificato arricchimento e di quello che impone di comportarsi, nell'esecuzione del contratto, secondo correttezza e buona fede).
Cass. civ. n. 995/2003
Nel lodo pronunciato secondo equità, la questione relativa alla carenza di legittimazione e di titolarità del rapporto controverso, avendo natura di merito deducibile in sede di giudizio arbitrale, non è deducibile come motivo di impugnazione per nullità se non prospettata dinanzi agli arbitri.
Cass. civ. n. 8937/2000
Non sussiste contrapposizione tra diritto ed equità, atteso che il giudizio di equità richiede pur sempre il riferimento ad una fattispecie normativa e la comparazione tra norma di legge ed eventuale criterio equitativo prescelto, il quale può operare ove sia obbiettivamente giustificata una disparità di trattamento rispetto a quello che deriverebbe dall'applicazione delle norme di diritto. È, pertanto, potere degli arbitri chiamati al giudizio secondo equità applicare il diritto ogni volta in cui essi ne ravvisino la coincidenza con l'equità, ed il loro apprezzamento al riguardo si sottrae ad ogni censura, poiché un controllo su di esso equivarrebbe ad un sindacato sul retto esercizio dei poteri equitativi.
Cass. civ. n. 4330/1994
La disposizione dell'art. 2231 c.c. — secondo cui «quando l'esercizio di un'attività professionale è condizionata alla iscrizione in un albo od elenco, la prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il pagamento della retribuzione» — avendo carattere cogente ed inderogabile, deve essere applicata anche negli arbitrati di equità, giacché gli arbitri, se pure debbono giudicare in conformità di questa e non dello stretto diritto, nondimeno hanno il dovere di osservare le norme di ordine pubblico, e cioè quelle dettate in vista d'interessi generali, non derogabili dalla volontà delle parti.
Cass. civ. n. 10321/1992
Qualora il compromesso affidi agli arbitri rituali il compito di decidere secondo equità è nel potere dei medesimi applicare il diritto ogni volta in cui ravvisino la sua coincidenza con l'equità, senza che ciò comporti vizio di eccesso di potere nel caso in cui non siano state enunciate le specifiche ragioni di siffatta, ritenuta coincidenza, oggetto di un apprezzamento che si sottrae ad ogni censura, in quanto un controllo su di esso equivarrebbe ad un sindacato sul retto esercizio dei poteri equitativi.
Cass. civ. n. 5637/1984
Quando gli arbitri sono stati autorizzati a pronunciare secondo equità, essi sono svincolati, nella formazione del loro giudizio ai fini della decisione della controversia, dalla rigorosa osservanza delle regole del diritto oggettivo, avendo facoltà di far ricorso a criteri, principi e valutazioni di prudenza e di opportunità, che risultino i più adatti e i più equi, secondo la loro coscienza, per la risoluzione del caso concreto, e ciò necessariamente importa, ai sensi dell'art. 829, comma secondo, ultima parte, c.p.c., che sia preclusa l'impugnazione per nullità del lodo di equità per violazione delle norme di diritto sostanziale, o in generale per errores in iudicando. Il lodo, tuttavia, resta pur sempre impugnabile per i vizi in procedendo indicati nel primo comma dell'art. 829 c.p.c., ed inoltre la pronuncia secondo equità non implica assoluta libertà ed arbitrio, anche gli arbitri di equità essendo tenuti in ogni caso ad osservare le norme fondamentali e cogenti di ordine pubblico, dettate in vista di interessi generali, e come tali non derogabili dalla volontà delle parti né suscettibili di formare oggetto di compromesso.