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Art. 230 bis — Impresa familiare

Art. 230 bis — Impresa familiare

Salvo che sia configurabile un diverso rapporto [ 2094, 2251 ], il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato [ 36 Cost ]. Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa . I familiari partecipanti all’impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi [ 316 ].

Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo [ 37 Cost. ].

Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado; gli affini [ 78 ] entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo.

Il diritto di partecipazione di cui al primo comma è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore di familiari indicati nel comma precedente col consenso di tutti i partecipi . Esso può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione del lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell’azienda . Il pagamento può avvenire in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice.

In caso di divisione ereditaria [ 713 ss. c.c. ] o di trasferimento dell’azienda [ 2556 ] i partecipi di cui al primo comma hanno diritto di prelazione sull’azienda. Si applica, nei limiti in cui è compatibile, la disposizione dell’articolo 732.

Le comunioni tacite familiari nell’esercizio dell’agricoltura sono regolate dagli usi che non contrastino con le precedenti norme.

L’eventuale comma dell’articolo ricompreso fra parentesi quadre è stato abrogato.

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Aggiornato al 1 gennaio 2020
Il testo riportato è reso disponibile agli utenti al solo scopo informativo. Pertanto, unico testo ufficiale e definitivo è quello pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale Italiana che prevale in casi di discordanza rispetto al presente.
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Massime correlate

Cass. civ. n. 10147/2017

In tema di impresa familiare, è sufficiente, ai fini dell’operatività della prelazione di cui all’art. 230-bis, comma 5, c.c., una volta accertata la partecipazione all’attività, che vi sia stato un trasferimento d’azienda affinché il familiare partecipe possa essere messo nelle condizioni di esercitare il proprio diritto, risultando del tutto ininfluente che la cessione avvenga mediante conferimento in una società di persone, di cui il titolare dell’azienda stessa conservi un ruolo dominante quale socio illimitatamente responsabile ed amministratore, poiché la norma tutela il familiare estromesso e non colui che sia stato incluso nella vicenda traslativa, senza che rilevi il requisito dell’estraneità di cui all’art. 732 c.c., norma richiamata dall’art. 230-bis solo “in quanto compatibile”.

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Cass. civ. n. 17639/2016

In tema di lavoro familiare, ai fini dell’individuazione del limite temporale del perdurare del diritto di prelazione e riscatto di cui al comma 5 dell’art. 230 bis c.c. deve aversi riguardo, in virtù del rinvio all’art. 732 c.c., al momento della liquidazione della quota, il quale coincide con il consolidarsi, alla cessazione del rapporto con l’impresa familiare, del diritto di credito del partecipe a percepire la quota di utili e di incrementi patrimoniali riferibili alla sua posizione, restando irrilevante la data del passaggio in giudicato della sentenza che su quel diritto ha statuito, in ragione del prodursi degli effetti della medesima alla data dello scioglimento del rapporto.

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Cass. civ. n. 5224/2016

In tema di impresa familiare, la predeterminazione, ai sensi dell’art. 9 della l. n. 576 del 1975 e nella forma documentale prescritta, delle quote di partecipazione agli utili, sia essa oggetto di una mera dichiarazione di verità, come è sufficiente ai fini fiscali, o di un negozio giuridico, può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere mediante presunzioni l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere gli utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell’impresa familiare che dell’entità della propria quota di partecipazione ai proventi in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. La partecipazione agli utili per la collaborazione nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230 bis c.c., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa (“beni acquistati” con essi, “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, atteso che i proventi – in assenza di un patto di distribuzione periodica – non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni.

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Cass. civ. n. 23676/2014

L’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria attesa non solo l’assenza nell’art. 230 bis cod. civ. di ogni previsione in tal senso, ma, soprattutto, l’irriducibilità ad una qualsiasi tipologia societaria della specifica regolamentazione, patrimoniale, ivi prevista in ordine alla partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, che sono determinati in proporzione alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato e non alla quota di partecipazione, ponendosi altresì il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio in conflitto con le regole imperative del sistema societario. Tale soluzione, inoltre, è coerente con una interpretazione teleologica della norma – introdotta dalla riforma del diritto di famiglia con una norma di chiusura della disciplina dei rapporti patrimoniali (art. 89 della legge 19 maggio 1975, n. 151) – che, come si evince dall'”incipit” dell’art. 230 bis cod. civ. (“salvo sia configurabile un diverso rapporto”), prefigura l’istituto dell’impresa familiare come autonomo, di carattere speciale (ma non eccezionale) e di natura residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile.

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Cass. civ. n. 14580/2010

Ai fini dell’estensione del fallimento del titolare dell’impresa familiare agli altri componenti della stessa è necessario il positivo accertamento dell’effettiva costituzione di una società di fatto, attraverso l’esame del comportamento assunto dai familiari nelle relazioni esterne all’impresa, al fine di valutare se vi sia stata la spendita del “nomen” della società o quanto meno l’esteriorizzazione del vincolo sociale, l’assunzione delle obbligazioni sociali ovvero un complessivo atteggiarsi idoneo ad ingenerare nei terzi un incolpevole affidamento in ordine all’esistenza di un vincolo societario, mentre non assume rilievo univoco né la qualificazione dei familiari come collaboratori dell’impresa familiare, né l’eventuale condivisione degli utili, trattandosi d’indicatori equivoci rispetto agli elementi indefettibili della figura societaria costituiti dal fondo comune e dalla “affectio societatis”.

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Cass. civ. n. 20157/2005

Il carattere residuale dell’impresa familiare, quale risulta dall’
incipit dell’art. 230 bis c.c., mira a coprire le situazioni di apporto lavorativo all’impresa del congiunto — parente entro il terzo grado o affine entro il secondo — che non rientrino nell’archetipo del rapporto di lavoro subordinato o per le quali non sia raggiunta la prova dei connotati tipici della subordinazione, con l’effetto di confinare in un’area limitata quella del lavoro familiare gratuito. Di conseguenza, ove un’attività lavorativa sia stata svolta nell’ambito dell’impresa ed un corrispettivo sia stato erogato dal titolare, il giudice di merito dovrà valutare le risultanze di causa per distinguere tra la fattispecie del lavoro subordinato e quella della compartecipazione all’impresa familiare, escludendo comunque la causa gratuita della prestazione lavorativa per ragioni di solidarietà familiare. (Nella specie la S.C. ha cassato con rinvio. la sentenza di merito che aveva, contraddittoriamente, escluso il lavoro subordinato e individuato una causa gratuita dell’attività di collaborazione all’impresa a fronte di un corrispettivo periodico per l’attività di servizio ai tavoli svolta dalla nuora).

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Cass. civ. n. 15298/2005

Il bene immobile acquistato congiuntamente dai coniugi compartecipi di un’impresa familiare dopo l’inizio dell’impresa si presume sia stato acquistato con denaro proveniente dagli utili dell’attività comune, e pertanto ad esso si applicano le regole dettate dall’art. 230 bis c.c.; la presunzione può essere superata dalla prova di circostanze atte ad escludere tale provenienza. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito per difetto di motivazione, non avendo essa adeguatamente considerato nè l’anteriorità dell’impresa rispetto agli acquisti, nè il breve tempo intercorso tra la costituzione dell’impresa e gli acquisti stessi).

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Cass. civ. n. 7223/2004

A differenza della impresa collettiva esercitata per mezzo di società semplice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone (artt. 2251 e ss. c.c.), l’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c. appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno solo diritto ad una quota degli utili; ne consegue che, in caso di morte del titolare, non è applicabile la disciplina dettata dall’art. 2284 c.c., che regola lo scioglimento del rapporto societario limitatamente ad un socio, e quindi la liquidazione della quota del socio uscente di società di persone, ma l’impresa familiare cessa ed i beni di cui è composta passano per intero nell’asse ereditario del de cuius, rispetto a tali beni i componenti dell’impresa familiare possono vantare solo un diritto di credito commisurato ad una quota dei beni o degli utili e degli incrementi e un diritto di prelazione sull’azienda.

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Cass. civ. n. 9897/2003

A differenza della impresa collettiva esercitata per mezzo di società semplice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone (artt. 2251 e ss. c.c.), l’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c. appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno diritto ad una quota degli utili, e ciò anche nel caso in cui uno dei beni aziendali sia di proprietà di alcuno dei familiari. Ne consegue che, mentre nel caso di società semplice con due soli soci, l’esclusione di uno di loro è pronunciata dal tribunale su istanza dell’altro (art. 2287, comma terzo, c.c.), il diritto potestativo di recedere dall’impresa familiare spettante al titolare, e quello eventuale di determinarne la cessazione, è esercitabile attraverso una semplice manifestazione di volontà, salvo il diritto degli altri familiari alla liquidazione della loro quota e, in caso di recesso privo di giustificazione, al risarcimento del danno.

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Cass. civ. n. 13849/2002

La continuità dell’apporto richiesto dall’art. 230 bis c.c. per la configurabilità della partecipazione all’impresa familiare non esige la continuità della presenza in azienda, richiedendo invece soltanto la continuità della presenza in azienda, richiedendo invece soltanto la continuità dell’apporto (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito nella parte in cui essa aveva ritenuto accertata la sussistenza di un apporto continuativo idoneo a configurare la partecipazione all’impresa familiare alla stregua della redazione giornaliera della contabilità, della tenuta dei rapporti con i fornitori, dell’aiuto, anche se non continuativo, all’esercizio dell’attività aziendale).

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Cass. civ. n. 5603/2002

Ai fini del riconoscimento dell’istituto — residuale — della impresa familiare è necessario che concorrano due condizioni, e cioè, che sia fornita la prova sia dello svolgimento, da parte del partecipante, di un’attività di lavoro continuativa (nel senso di attività non saltuaria, ma regolare e costante anche se non necessariamente a tempo pieno), sia dell’accrescimento della produttività della impresa procurato dal lavoro del partecipante (necessaria per determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi).

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Cass. civ. n. 3520/2000

A prescindere dal problema più generale relativo alla natura in sè societaria o meno dell’impresa familiare, in ogni caso, quando il rapporto fra i componenti della stessa si strutturi all’esterno, come un rapporto societario, nell’ambito del quale i soci partecipino agli utili ed alle perdite, intrattengano rapporti con i terzi assumendo le conseguenti obbligazioni, spendano il nome della società, manifestando palesemente, nei rapporti esterni, l’
affectio societatis, si costituisce fra i componenti stessi una società di fatto che si sovrappone al rapporto regolato dall’art. 230 bis, c.c., di talché tale rapporto perde di rilevanza esterna, con conseguente applicazione — ad esempio — in relazione alle procedure concorsuali, dei principi generali che regolamentano le società di fatto, tra i quali l’assoggettabilità al fallimento di tutti i soggetti che partecipano al rapporto societario.

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Cass. civ. n. 11689/1999

Nell’impresa familiare le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi sono adottate da tutti i familiari che partecipano all’impresa stessa, sicché da tanto è dato desumere che vi è una partecipazione paritetica di tutti i suoi componenti all’organizzazione ed all’esercizio della stessa.

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Cass. civ. n. 1917/1999

Ai fini della disciplina di diritto internazionale privato, nel regime anteriore alla riforma introdotta con la legge 31 maggio 1995 n. 218, è da escludere che l’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c. sia riconducibile ai rapporti di famiglia (art. 17 preleggi), ma si tratta di un rapporto contrattuale (art. 25 preleggi), fonte di diritti ed obblighi tra le parti, atteso che la costituzione dell’impresa familiare non è automatica, ma richiede la manifestazione di volontà delle parti che può essere espressa anche per fatti concludenti.

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Cass. civ. n. 4171/1997

La volontà dei partecipanti alla comunione tacita familiare può essere manifestata anche attraverso un comportamento tacito concludente e non richiede uno specifico atto di conferimento di beni patrimoniali, essendo sufficiente lo svolgimento di attività lavorativa in comune, che è idonea di per sè anche all’espressione della volontà negoziale indirizzata al compartecipe.

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Cass. civ. n. 1304/1997

Qualora l’impresa familiare prevista dall’art. 230 bis c.c., sia stata costituita a seguito di negozio ritualmente formalizzato mediante atto scritto, chi intenda contestare la configurabilità in concreto di siffatta impresa per essere rimasto ineseguito l’accordo che vi ha dato origine, ha l’onere di dimostrare rigorosamente tale inesecuzione, provando che è in realtà mancata quella effettiva collaborazione che dell’impresa familiare costituisce elemento essenziale.

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Cass. civ. n. 10412/1995

Il potere di gestione ordinaria dell’impresa familiare spetta ex art. 230 bis esclusivamente al titolare della stessa e l’eventuale esercizio di tale potere in violazione degli obblighi scaturenti dalla norma suddetta comporta non l’invalidità degli atti posti in essere ma unicamente l’obbligo di risarcire i danni provocati.

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Cass. civ. n. 2060/1995

La configurazione dell’impresa familiare — con la correlativa competenza del giudice del lavoro —, pur essendo «residuale» (nel senso che ricorre quando le parti non abbiano diversamente qualificato, neanche per facta concludentia, il loro rapporto), ha carattere imperativo e non può eludersene l’applicazione, senza che sia necessaria una formale dichiarazione negoziale al riguardo, quando difetti una diversa pattuizione regolatrice del rapporto.

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Cass. civ. n. 11786/1993

L’istituto dell’impresa familiare ha carattere residuale, in quanto appresta una tutela minima ed inderogabile a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono negli aggregati familiari, ricondotti in passato ad una causa affectionis vel benevolentiae, o ad un contratto innominato di lavoro gratuito, con la conseguenza che l’istituto, e la correlativa competenza del giudice del lavoro, non è configurabile quando i rapporti intervenuti tra i componenti della famiglia, estrinsecantesi in un’attività economica produttiva, trovino il loro fondamento in un diverso rapporto contrattuale, quale quello di società.

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Cass. civ. n. 697/1993

La configurabilità del rapporto d’impresa familiare dedotto nell’atto introduttivo del giudizio — con la conseguente devoluzione della relativa controversia alla competenza per materia del pretore in funzione di giudice del lavoro — non può essere esclusa per la mancanza di un atto scritto costitutivo dell’impresa disciplinata dall’art. 230 bis c.c., atteso che tale istituto, avente carattere residuale, non presuppone necessariamente una formale dichiarazione negoziale bensì una collaborazione (del familiare nell’impresa) non riconducibile ad una diversa pattuizione, la cui esistenza deve essere provata dalla parte che contesta la suindicata qualificazione del rapporto.

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Cass. civ. n. 6559/1990

Nell’ambito dell’istituto «dell’impresa familiare» di cui all’art. 230 bis c.c., caratterizzato dall’assenza di un vincolo societario e dalla insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra i familiari e la persona del capo (quale riconosciuto dai partecipanti in forza della sua anzianità e/o del suo maggiore apporto all’impresa stessa), vanno distinti un aspetto interno, costituito dal rapporto associativo del gruppo familiare quanto alla regolamentazione dei vantaggi economici di ciascun componente, ed un aspetto esterno, nel quale ha rilevanza la figura del familiare — imprenditore, effettivo gestore dell’impresa, che assume in proprio i diritti e le obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi e risponde illimitatamente e solidamente con i suoi beni personali, diversi a quelli comuni ed indivisi dell’intero gruppo, anch’essi oggetto della generica garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c. Ne consegue che il fallimento di detto imprenditore non si estende automaticamente al semplice partecipante all’impresa familiare.

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Cass. civ. n. 323/1990

La circostanza che i diversi membri della famiglia trattengano per sé i proventi dei fondi da ciascuno d’essi coltivati non è preclusiva della configurabilità d’una impresa familiare coltivatrice, né è per sé dimostrativa dell’avvenuto scioglimento della stessa, che si attua, invece, con il consenso delle parti mediante la divisione del patrimonio comune oppure, limitatamente ad alcuno dei componenti della famiglia, per effetto di recesso o di esclusione (a seguito di decisione della maggioranza) con conseguente liquidazione dei diritti degli uscenti.

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