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Art. 596 — Esclusione della prova liberatoria

Art. 596 — Esclusione della prova liberatoria

Il colpevole del delitto previsto dall’articolo precedente non è ammesso a provare, a sua discolpa, la verità o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa.

Tuttavia, quando l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato , la persona offesa e l’offensore possono, d’accordo [ 597 2 ], prima che sia pronunciata sentenza irrevocabile [ c.p.p. 648650 ], deferire ad un giurì d’onore il giudizio sulla verità del fatto medesimo [ c.p.p. 336338 ].

Quando l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la prova della verità del fatto medesimo è però sempre ammessa nel procedimento penale:

  1. 1) se la persona offesa è un pubblico ufficiale ed il fatto ad esso attribuito si riferisce all’esercizio delle sue funzioni;
  2. 2) se per il fatto attribuito alla persona offesa è tuttora aperto o si inizia contro di essa un procedimento penale;
  3. 3) se il querelante domanda formalmente che il giudizio si estenda ad accertare la verità o la falsità del fatto ad esso attribuito.

Se la verità del fatto è provata o se per esso la persona, a cui il fatto è attribuito, è [ per esso ] condannata dopo l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore dell’imputazione non è punibile, salvo che i modi usati non rendano per se stessi applicabile la disposizione dell’articolo 595, comma 1.

  1. 1) se la persona offesa è un pubblico ufficiale ed il fatto ad esso attribuito si riferisce all’esercizio delle sue funzioni;
  2. 2) se per il fatto attribuito alla persona offesa è tuttora aperto o si inizia contro di essa un procedimento penale;
  3. 3) se il querelante domanda formalmente che il giudizio si estenda ad accertare la verità o la falsità del fatto ad esso attribuito.
L’eventuale comma dell’articolo ricompreso fra parentesi quadre è stato abrogato.

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Aggiornato al 1 gennaio 2020
Il testo riportato è reso disponibile agli utenti al solo scopo informativo. Pertanto, unico testo ufficiale e definitivo è quello pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale Italiana che prevale in casi di discordanza rispetto al presente.
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Massime correlate

Cass. pen. n. 41414/2016

In tema di diffamazione, il divieto di “exceptio veritatis”, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 596, comma primo, cod. pen., non può trovare applicazione qualora l’autore del fatto incriminato abbia agito nell’esercizio di un diritto, ex art. 51 cod. pen. e, quindi, in ogni caso in cui si prospetti il legittimo esercizio del diritto di critica. (In applicazione di questo principio la S.C. ha confermato la decisione con cui il giudice di appello ha assolto l’imputato dal reato di cui all’art. 595 cod. pen. per avere esposto ad alcuni superiori della parte lesa, carabiniere, che quest’ultimo non gli aveva pagato alcuni lavori edilizi eseguiti nella sua abitazione, avendo ravvisato, nelle modalità di esposizione dei fatti, le caratteristiche della scriminante di cui all’art. 51 cod. pen.).

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Cass. pen. n. 32256/2015

In tema di diffamazione, la cd. prova liberatoria di cui all’art. 596 cod.pen. postula non soltanto la condizione che, nei confronti della persona la cui reputazione è stata offesa, sia pendente un procedimento penale – di per sè sola insufficiente – ma anche la piena dimostrazione della esistenza del fatto attribuito al diffamato, dimostrazione che può essere diretta, cioè acquisibile nel medesimo procedimento penale, ovvero indiretta, cioè fornita mediante la produzione della pronunzia irrevocabile di condanna.

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Cass. pen. n. 11018/1999

In tema di diffamazione, perché sia operante la possibilità di fornire prova liberatoria ai sensi dell’art. 596 c.p., non è sufficiente che, nei confronti della persona la cui reputazione è stata offesa sia pendente un procedimento penale. Invero, l’esistenza di tale procedimento, integra solo parte della condizione di fatto che abilita l’autore delle dichiarazioni offensive alla prova liberatoria, la quale si consegue solo con la piena dimostrazione della esistenza del fatto attribuito al diffamato, dimostrazione che può essere diretta, cioè acquisibile nel medesimo procedimento penale, ovvero indiretta, cioè fornita mediante la produzione della pronunzia irrevocabile di condanna. (Nella fattispecie, la Corte, rilevando che nei confronti del soggetto offeso era stata pronunciata sentenza di non doversi procedere per amnistia e prescrizione, ha annullato con rinvio, su ricorso del P.M., la sentenza di secondo grado, che aveva mandato assolto l’imputato, ritenendo applicabile l’art. 596 comma terzo, n. 2 c.p., per il solo fatto che, all’epoca della diffamazione, era pendente procedimento penale a carico della persona diffamata).

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Cass. pen. n. 1739/1993

Il disposto dell’art. 596, ultimo comma c.p., nella parte in cui esclude la punibilità dell’autore della diffamazione, ove la persona cui il fatto è attribuito venga condannata per il fatto stesso, non pone alcuna questione di pregiudizialità, poiché considera la sentenza di condanna come fatto giuridico destinato a svolgere effetti specifici in virtù della suddetta norma sostanziale e non già per il suo riferimento e collegamento alla definizione di questioni risolte in altro procedimento, secondo l’ottica propria della disciplina contenuta nell’art. 18 del codice di rito abrogato e nell’art. 2 dell’attuale codice di procedura. Ciò non esclude, peraltro, che il giudice del processo di diffamazione adotti provvedimento di sospensione — espressamente previsto dall’art. 509 c.p.p. vigente — ove la condanna del soggetto diffamato per il fatto attribuito si prospetti quale fatto giuridico anche solo virtuale. (La Suprema Corte ha ritenuto abnorme l’ordinanza di sospensione del dibattimento, assunta dal giudice senza considerare che nel caso di specie si profilava l’altra causa di esclusione della punibilità, ipotizzata dall’art. 596, terzo comma n. 1 c.p., della prova della verità del fatto dedotto nella diffamazione, consentita in ragione della qualità di pubblico ufficiale della persona diffamata, nel momento in cui l’istruzione dibattimentale non era ancora esaurita, dovendo essere escusso un teste, addotto in proposito).

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Cass. pen. n. 866/1992

L’applicazione dell’esimente, prevista dall’art. 596 c.p. al reato di diffamazione a mezzo stampa, è subordinata alla prova che tutto il fatto dal contenuto diffamatorio, nel suo complesso e nelle sue modalità, sia vero. La prova mancata, anche parzialmente, sulla verità dei fatti non esime da pena.

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Cass. pen. n. 12807/1989

La prova liberatoria, come prevista dall’art. 596 c.p., essendo una causa di esclusione della pena, è operante ove sia piena e completa, sicché la sua insufficienza non è mai suscettiva di condurre ad una qualsivoglia pronuncia di assoluzione dell’autore dell’ingiuria o della diffamazione.

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Cass. pen. n. 5070/1987

L’art. 21 Cost. (in relazione all’art. 51 c.p.) non ha scriminato in via generale l’attribuzione di fatti diffamatori veri, né, quindi, ha reso inoperante la regola di cui al primo comma dell’art. 596 c.p. o le eccezioni a detta regola contenute nei successivi comma di tale disposizione, operante l’una e le altre quando non possa invocarsi l’esimente del diritto di cronaca o di critica.
La riserva posta alla impunibilità per la provata verità del fatto diffamatorio dall’ultimo inciso dell’art. 596 c.p. relativo ai «modi usati», si concreta in un limite di continenza analogo a quello del diritto di cronaca o di critica, il cui superamento rende inoperante l’esimente stessa.

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Cass. pen. n. 5628/1986

Nel caso di ingiurie, generiche o specifiche che siano, oppure di diffamazione non correlata ad argomento di pubblico interesse, esula — in quest’ultimo caso per difetto di utilità sociale delle offese — l’applicabilità dell’art. 51 c.p. (esercizio di un diritto) e riprende ad operare la norma dell’art. 596 c.p. relativa all’esclusione della prova liberatoria, ma con i limiti suoi propri, ossia con possibilità di tale prova — nei casi previsti — solo per le ingiurie e le diffamazioni specifiche. Pertanto, qualora risulti accertato il carattere generico delle espressioni ingiuriose usate dall’imputato che nella specie aveva accusato il querelante di «ignavia» e «scarsa diligenza» nell’esercizio dell’avvocatura e, inoltre, lo aveva chiamato «merda», la fattispecie è estranea all’istituto della exceptio veritatis e dell’esimente correlativa.

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Cass. pen. n. 4135/1985

La prova della verità del fatto diffamatorio essendo una causa di esclusione della punibilità per reato concretamente accertato nella materialità del fatto, è operante ove sia piena e completa, occorre cioè la certezza che il fatto attribuito all’offeso sia vero in tutti gli elementi che hanno idoneità offensiva. Nell’ipotesi di cui all’art. 596, terzo comma, n. 3, c.p., il giudizio di non punibilità dell’imputato è subordinato alla prova che tutto il fatto nel suo complesso e nelle sue modalità sia vero, perché la prova mancata, parziale o insufficiente circa la verità del fatto non esime da pena, così come non esime da pena l’addebito diffamatorio di fatto vero formato o travisato in modo da farlo ritenere più disonorevole. Il fallimento della prova della verità porta esclusivamente a negare la specifica causa di non punibilità prevista dall’art. 596 c.p., ma non giustifica di per sé la condanna dell’imputato, dovendo a tale scopo il giudice sempre accertare la ricorrenza di tutti gli elementi richiesti dalla legge per la sussistenza del reato.

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