Art. 596 – Codice penale – Esclusione della prova liberatoria
Il colpevole del delitto previsto dall'articolo precedente non è ammesso a provare, a sua discolpa, la verità o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa.
Tuttavia, quando l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato , la persona offesa e l'offensore possono, d'accordo [597], prima che sia pronunciata sentenza irrevocabile [c.p.p. 648-650], deferire ad un giurì d'onore il giudizio sulla verità del fatto medesimo [c.p.p. 336-338].
Quando l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la prova della verità del fatto medesimo è però sempre ammessa nel procedimento penale:
1) se la persona offesa è un pubblico ufficiale ed il fatto ad esso attribuito si riferisce all'esercizio delle sue funzioni;
2) se per il fatto attribuito alla persona offesa è tuttora aperto o si inizia contro di essa un procedimento penale;
3) se il querelante domanda formalmente che il giudizio si estenda ad accertare la verità o la falsità del fatto ad esso attribuito.
Se la verità del fatto è provata o se per esso la persona, a cui il fatto è attribuito, è [per esso] condannata dopo l'attribuzione del fatto medesimo, l'autore dell'imputazione non è punibile, salvo che i modi usati non rendano per se stessi applicabile la disposizione dell'articolo 595, comma 1.
Le parole ricomprese fra parentesi quadre sono state abrogate.
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Massime correlate
Cass. civ. n. 31698/2024
In tema di diffamazione a mezzo stampa, i requisiti della verità putativa e della continenza espressiva devono essere valutati con maggiore rigore nel caso di un editoriale, in ragione sia dell'autorevolezza dell'autore (che induce il c.d. lettore medio a riporre maggiore fiducia nel contenuto dell'articolo), sia del rilievo che assume tale contributo all'interno del giornale, circostanze dalle quali deriva una maggiore offesa alla reputazione della persona.
Cass. civ. n. 40277/2023
In tema di diffamazione, non trova applicazione la formula assolutoria di cui all'art. 530, comma 3, cod. proc. pen. con riferimento alla prova liberatoria di cui all'art. 596, comma quarto, cod. pen., che postula la piena dimostrazione dell'esistenza del fatto attribuito al diffamato e che non è riconducibile alle cause di giustificazione o alle cause soggettive di non punibilità.
Cass. civ. n. 23893/2023
È apparente, in quanto atomistica ed intrinsecamente contraddittoria e comunque frutto di insanabile incongruenza logica con le premesse, la motivazione della decisione che escluda la valenza diffamatoria della notizia, pur smentita dagli interessati, di una condotta riservata asseritamente tenuta da un'organizzazione sindacale e dalla sua segretaria generale in aperto ed inconciliabile contrasto con la linea ufficiale di critica e ferma opposizione nella trattativa in corso con il Governo, senza tener conto della valenza attribuita dallo stesso sindacato al rigore nella coerente difesa di tale indirizzo.
Cass. civ. n. 19376/2023
In tema di diffamazione a mezzo stampa, il giornalista, anche nel caso in cui pubblichi il testo di una intervista, non può limitare il suo intervento a riprodurre esattamente e diligentemente quanto riferito dall'intervistato, soltanto perché le eventuali dichiarazioni possono interessare la pubblica opinione, essendo in ogni caso tenuto a controllare la veridicità delle circostanze e la continenza delle espressioni riferite; ne consegue che, quando non ricorrano detti presupposti, egli diviene "dissimulato coautore" delle eventuali dichiarazioni diffamatorie contenute nel testo pubblicato.
Cass. civ. n. 15093/2020
In tema di cronaca giudiziaria, non integra un'ipotesi di diffamazione a mezzo della stampa la divulgazione di una notizia d'agenzia riportante l'erronea affermazione che taluno sia stato raggiunto da richiesta di rinvio a giudizio anziché da avviso di conclusione delle indagini preliminari, dal momento che, in tal caso, la divergenza tra quanto propalato e l'effettivo stato del procedimento costituisce una mera inesattezza su un elemento secondario del fatto storico, che non intacca la verità della notizia principale, secondo cui il procedimento, nella prospettiva della pubblica accusa, è approdato ad una cristallizzazione delle risultanze d'indagine funzionale alla sua progressione. (In motivazione, la Corte ha aggiunto che, diversamente, non viene meno la rilevanza penale del fatto in caso di diffusione dell'erronea notizia a termini della quale una persona è stata rinviata a giudizio, implicando questo atto il positivo vaglio della prospettazione accusatoria da parte di un giudice).
Cass. civ. n. 41414/2016
In tema di diffamazione, il divieto di "exceptio veritatis", alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 596, comma primo, cod. pen., non può trovare applicazione qualora l'autore del fatto incriminato abbia agito nell'esercizio di un diritto, ex art. 51 cod. pen. e, quindi, in ogni caso in cui si prospetti il legittimo esercizio del diritto di critica. (In applicazione di questo principio la S.C. ha confermato la decisione con cui il giudice di appello ha assolto l'imputato dal reato di cui all'art. 595 cod. pen. per avere esposto ad alcuni superiori della parte lesa, carabiniere, che quest'ultimo non gli aveva pagato alcuni lavori edilizi eseguiti nella sua abitazione, avendo ravvisato, nelle modalità di esposizione dei fatti, le caratteristiche della scriminante di cui all'art. 51 cod. pen.).
Cass. civ. n. 32256/2015
In tema di diffamazione, la cd. prova liberatoria di cui all'art. 596 cod.pen. postula non soltanto la condizione che, nei confronti della persona la cui reputazione è stata offesa, sia pendente un procedimento penale - di per sè sola insufficiente - ma anche la piena dimostrazione della esistenza del fatto attribuito al diffamato, dimostrazione che può essere diretta, cioè acquisibile nel medesimo procedimento penale, ovvero indiretta, cioè fornita mediante la produzione della pronunzia irrevocabile di condanna.
Cass. civ. n. 11018/1999
In tema di diffamazione, perché sia operante la possibilità di fornire prova liberatoria ai sensi dell'art. 596 c.p., non è sufficiente che, nei confronti della persona la cui reputazione è stata offesa sia pendente un procedimento penale. Invero, l'esistenza di tale procedimento, integra solo parte della condizione di fatto che abilita l'autore delle dichiarazioni offensive alla prova liberatoria, la quale si consegue solo con la piena dimostrazione della esistenza del fatto attribuito al diffamato, dimostrazione che può essere diretta, cioè acquisibile nel medesimo procedimento penale, ovvero indiretta, cioè fornita mediante la produzione della pronunzia irrevocabile di condanna. (Nella fattispecie, la Corte, rilevando che nei confronti del soggetto offeso era stata pronunciata sentenza di non doversi procedere per amnistia e prescrizione, ha annullato con rinvio, su ricorso del P.M., la sentenza di secondo grado, che aveva mandato assolto l'imputato, ritenendo applicabile l'art. 596 comma terzo, n. 2 c.p., per il solo fatto che, all'epoca della diffamazione, era pendente procedimento penale a carico della persona diffamata).
Cass. civ. n. 12058/1995
L'effetto preclusivo derivante dal giudicato non si esplica nei confronti dei coimputati, neppure se concorrenti nello stesso reato, a cagione dell'autonomia di ciascun rapporto processuale. Peraltro, il giudice di legittimità ben può utilizzare gli elementi di fatto risultanti dalla sentenza irrevocabile del giudice di primo grado, correttamente introdotta negli atti processuali dalla difesa, attraverso lo strumento dell'impugnazione, così ovviando alla omissione del giudice di appello. (Fattispecie di diffamazione a mezzo stampa, nella quale la Suprema corte ha pronunciato l'annullamento senza rinvio perché il fatto non costituisce reato, ai sensi dell'art. 129, comma 2, c.p.p., nei confronti del redattore di un quotidiano, sulla scorta della sentenza irrevocabile con la quale il direttore era stato assolto dal fatto, pur se addebitato a titolo di colpa, con la stessa formula).
Cass. civ. n. 1739/1993
Il disposto dell'art. 596, ultimo comma c.p., nella parte in cui esclude la punibilità dell'autore della diffamazione, ove la persona cui il fatto è attribuito venga condannata per il fatto stesso, non pone alcuna questione di pregiudizialità, poiché considera la sentenza di condanna come fatto giuridico destinato a svolgere effetti specifici in virtù della suddetta norma sostanziale e non già per il suo riferimento e collegamento alla definizione di questioni risolte in altro procedimento, secondo l'ottica propria della disciplina contenuta nell'art. 18 del codice di rito abrogato e nell'art. 2 dell'attuale codice di procedura. Ciò non esclude, peraltro, che il giudice del processo di diffamazione adotti provvedimento di sospensione — espressamente previsto dall'art. 509 c.p.p. vigente — ove la condanna del soggetto diffamato per il fatto attribuito si prospetti quale fatto giuridico anche solo virtuale. (La Suprema Corte ha ritenuto abnorme l'ordinanza di sospensione del dibattimento, assunta dal giudice senza considerare che nel caso di specie si profilava l'altra causa di esclusione della punibilità, ipotizzata dall'art. 596, terzo comma n. 1 c.p., della prova della verità del fatto dedotto nella diffamazione, consentita in ragione della qualità di pubblico ufficiale della persona diffamata, nel momento in cui l'istruzione dibattimentale non era ancora esaurita, dovendo essere escusso un teste, addotto in proposito).
Cass. civ. n. 866/1992
L'applicazione dell'esimente, prevista dall'art. 596 c.p. al reato di diffamazione a mezzo stampa, è subordinata alla prova che tutto il fatto dal contenuto diffamatorio, nel suo complesso e nelle sue modalità, sia vero. La prova mancata, anche parzialmente, sulla verità dei fatti non esime da pena.
Cass. civ. n. 11494/1990
In materia di reati di stampa la responsabilità del direttore, a titolo di colpa, per non avere impedito la commissione del reato, è ben diversa da quella a titolo di concorso, la quale ultima in tanto può sussistere in quanto siano presenti tutti gli elementi generalmente occorrenti a norma dell'art. 110 c.p., tra i quali in primo luogo il dolo. Per affermare il concorso nella diffamazione commessa dall'autore dello scritto occorre dimostrare che il direttore ha voluto la pubblicazione nell'esatta conoscenza del suo contenuto lesivo e, quindi, con la consapevolezza di aggredire la reputazione altrui. Quando invece al direttore è addebitabile solo l'omissione del controllo dovuto ci si trova in presenza della diversa fattispecie colposa di cui all'art. 57 c.p. rispetto alla quale l'eventuale diffamazione si configura come l'evento dello specifico reato previsto a carico del direttore.
Cass. pen. n. 11178 del 4 agosto 1990
Il momento consumativo del reato di diffamazione a mezzo stampa è quello della consegna da parte dello stampatore delle prescritte copie, in adempimento dell'obbligo previsto dalla legge 2 febbraio 1939, n. 374, in quanto tale momento costituisce di per sé pubblicazione in senso tecnico dello stampato e realizza la sua prima diffusione. (In motivazione, la Suprema Corte ha precisato che notoriamente la data di copertina dei settimanali è di circa otto giorni successiva a quella di consegna delle copie d'obbligo e, quindi, di effettiva pubblicazione del periodico).
Cass. civ. n. 13585/1989
Ai fini dell'applicabilità dell'amnistia al reato di diffamazione a mezzo stampa commesso dal direttore o dal vicedirettore responsabile, quando sia noto l'autore della pubblicazione, deve considerarsi «autore» il giornalista che, utilizzando la fonte della notizia, ha prodotto l'articolo e non la persona che abbia fornito le informazioni.
Cass. civ. n. 12807/1989
La prova liberatoria, come prevista dall'art. 596 c.p., essendo una causa di esclusione della pena, è operante ove sia piena e completa, sicché la sua insufficienza non è mai suscettiva di condurre ad una qualsivoglia pronuncia di assoluzione dell'autore dell'ingiuria o della diffamazione.
Cass. civ. n. 5628/1986
Nel caso di ingiurie, generiche o specifiche che siano, oppure di diffamazione non correlata ad argomento di pubblico interesse, esula — in quest'ultimo caso per difetto di utilità sociale delle offese — l'applicabilità dell'art. 51 c.p. (esercizio di un diritto) e riprende ad operare la norma dell'art. 596 c.p. relativa all'esclusione della prova liberatoria, ma con i limiti suoi propri, ossia con possibilità di tale prova — nei casi previsti — solo per le ingiurie e le diffamazioni specifiche. Pertanto, qualora risulti accertato il carattere generico delle espressioni ingiuriose usate dall'imputato che nella specie aveva accusato il querelante di «ignavia» e «scarsa diligenza» nell'esercizio dell'avvocatura e, inoltre, lo aveva chiamato «merda», la fattispecie è estranea all'istituto della exceptio veritatis e dell'esimente correlativa.
Cass. civ. n. 4135/1985
La prova della verità del fatto diffamatorio essendo una causa di esclusione della punibilità per reato concretamente accertato nella materialità del fatto, è operante ove sia piena e completa, occorre cioè la certezza che il fatto attribuito all'offeso sia vero in tutti gli elementi che hanno idoneità offensiva. Nell'ipotesi di cui all'art. 596, terzo comma, n. 3, c.p., il giudizio di non punibilità dell'imputato è subordinato alla prova che tutto il fatto nel suo complesso e nelle sue modalità sia vero, perché la prova mancata, parziale o insufficiente circa la verità del fatto non esime da pena, così come non esime da pena l'addebito diffamatorio di fatto vero formato o travisato in modo da farlo ritenere più disonorevole. Il fallimento della prova della verità porta esclusivamente a negare la specifica causa di non punibilità prevista dall'art. 596 c.p., ma non giustifica di per sé la condanna dell'imputato, dovendo a tale scopo il giudice sempre accertare la ricorrenza di tutti gli elementi richiesti dalla legge per la sussistenza del reato.
Cass. civ. n. 4724/1978
Se è vero che la responsabilità del direttore viene configurata dalla legge come un'agevolazione colposa del delitto commesso da altri, ai sensi dell'art. 57 c.p., è pur vero che il direttore del periodico possa egli stesso essere ritenuto colpevole di diffamazione vera e propria e non di omissione del controllo imposto dalla legge al direttore, quando rimanga accertato che lo stesso abbia compiuto atti diretti a ledere l'altrui reputazione ovvero abbia concorso con i suoi collaboratori, consapevolmente, a raggiungere tale evento.