Avvocato.it

Art. 2598 — Atti di concorrenza sleale

Art. 2598 — Atti di concorrenza sleale

Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi [ 2563, 2568, 2569 ] e dei diritti di brevetto [ 2584, 2592, 2593 ], compie atti di concorrenza sleale chiunque:

  1. 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione [ 2564 ] con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente;
  2. 2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente;
  3. 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda [ 1175, 2599, 2600 ].
L’eventuale comma dell’articolo ricompreso fra parentesi quadre è stato abrogato.

[adrotate group=”6″]

Aggiornato al 1 gennaio 2020
Il testo riportato è reso disponibile agli utenti al solo scopo informativo. Pertanto, unico testo ufficiale e definitivo è quello pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale Italiana che prevale in casi di discordanza rispetto al presente.
[adrotate group=”8″]

Massime correlate

Cass. civ. n. 12364/2018

In tema di concorrenza sleale, il rapporto di concorrenza tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, comporta che la comunanza di clientela non è data dall’identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti, uguali ovvero affini o succedanei a quelli posti in commercio dall’imprenditore che lamenta la concorrenza sleale, che sono in grado di soddisfare quel bisogno.

[adrotate group=”8″]

Cass. civ. n. 4739/2012

La nozione di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c. va desunta dalla “ratio” della norma, che impone, alle imprese operanti nel mercato, regole di correttezza e di lealtà, in modo che nessuna si possa avvantaggiare, nella diffusione e collocazione dei propri prodotti o servizi, con l’adozione di metodi contrari all’etica delle relazioni commerciali; ne consegue che si trovano in situazione di concorrenza tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni. Infatti, quale che sia l’anello della catena che porta il prodotto alla stessa categoria di consumatori in cui si collochi un imprenditore, questi viene a trovarsi in conflitto potenziale con gli imprenditori posti su anelli diversi, proprio perché è la clientela finale quella che determina il successo o meno della sua attività, per cui ognuno di essi è interessato a che gli altri rispettino le regole di cui alla citata disposizione. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto la produzione e la distribuzione di “gabbiette” per tappi di bottiglia di vino frizzante strettamente connesse con la fabbricazione delle macchine che dette gabbiette producono, così che, pur a diversi livelli, i produttori di tali oggetti insistono nel medesimo settore di attività).

[adrotate group=”8″]

Cass. civ. n. 17144/2009

In tema di concorrenza sleale, presupposto indefettibile dell’illecito è la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, e quindi la comunanza di clientela, la quale non è data dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti che sono in grado di soddisfare quel bisogno. La sussistenza di tale requisito va verificata anche in una prospettiva potenziale, dovendosi esaminare se l’attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e quindi su quello merceologico, l’offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, nella parte in cui, nonostante il diverso pregio dei prodotti delle parti ed il diverso livello dei negozi presso cui essi erano reperibili, aveva ritenuto sussistente la confondibilità tra gli stessi, in virtù della loro appartenenza alla medesima categoria merceologica e dell’adozione di un marchio fortemente confondibile, che avrebbero potuto indurre il pubblico a ritenere entrambi i prodotti riconducibili all’attività della medesima impresa).

[adrotate group=”8″]

Cass. civ. n. 21392/2005

La mancanza di un rapporto di concorrenzialità tra l’autore di un determinato fatto e l’imprenditore che si assume da esso danneggiato, o anche la mancanza in capo al primo di una qualsiasi relazione con l’imprenditore concorrente tale da far ritenere che l’attività sia stata oggettivamente svolta nell’interesse di quest’ultimo, se valgono ad escludere rispetto all’autore del fatto l’ipotesi della concorrenza sleale, non impediscono però di configurare nei suoi confronti la responsabilità per fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c. (Fattispecie relativa a domanda di risarcimento del danno proposta da alcune società, quali titolari di un diritto sulla denominazione d’origine «Salame Felino» in quanto operanti nella zona tipica di tale denominazione, nei confronti di un ente senza scopo di lucro, avente come fine istituzionale l’attività di c.d. normalizzazione tecnica, in relazione alla divulgazione di una «norma tecnica» concernente l’individuazione delle componenti di qualità del «Salame Felino» e delle sue tecniche di produzione, la quale, secondo le attrici, non riproduceva le reali componenti tipiche del prodotto).

[adrotate group=”8″]

Cass. civ. n. 560/2005

Presupposto giuridico per la legittima configurabilità di un atto di concorrenza sleale è la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori (e la conseguente idoneità della condotta di uno dei due concorrenti ad arrecare pregiudizio all’altro, pur in assenza di danno attuale), così che la normativa dettata, in materia, dall’art. 2598 c.c. non può ritenersi applicabile ai rapporti tra professionisti (nella specie, avvocati). La nozione di azienda di cui al n. 3 dell’art. 2598 sopra citato, difatti, coincide con quella di cui al precedente art. 2555, stesso codice, sicché (pur essendo innegabile che, sotto il profilo meramente ontologico, studi di liberi professionisti siano, di fatto, per personale, mezzi tecnici impiegati e quant’altro, assimilabili ad una azienda) l’intento del legislatore, inteso a differenziare nettamente la libera professione dall’attività d’impresa (intento confermato, tra l’altro, proprio con riguardo alla professione di avvocato, dal regime delle incompatibilità di cui all’art. 3 primo comma del R.D.L. 1578/1933, comprendente, tra l’altro, il divieto dell’esercizio del commercio in nome proprio o altrui, divieto privo di significato se lo studio professionale fosse assimilabile ad un’azienda commerciale) va interpretato ed attuato nel senso della inapplicabilità tout court del regime di responsabilità da concorrenza sleale ai rapporti tra liberi professionisti, e ciò in via di interpretazione tanto diretta, quanto analogica, senza che possa, in contrario, invocarsi il disposto di cui all’art. 2105 c.c., funzionale alla disciplina della responsabilità contrattuale del prestatore nei confronti del proprio datore di lavoro ed alla repressione di una fattispecie di concorrenza illecita, laddove l’art. 2598 attiene alla responsabilità extracontrattuale tra imprenditori onde reprimerne comportamenti di concorrenza sleale.

[adrotate group=”8″]

Cass. civ. n. 13071/2003

Il principio secondo il quale la concorrenza sleale deve ritenersi fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza, non configurabile, quindi, qualora non sussista il cosiddetto «rapporto di concorrenzialità», non esclude la sussistenza di un atto di concorrenza sleale anche nel caso in cui un tale atto sia posto in essere da colui il quale si trovi con il soggetto avvantaggiato in una particolare relazione, in grado di far ritenere che l’attività sia stata oggettivamente svolta nell’interesse di quest’ultimo; peraltro, a detto fine è insufficiente la mera circostanza del vantaggio arrecato all’imprenditore concorrente, ma neppure occorre che sia stato stipulato con questi un pactum sceleris, essendo invece sufficiente il dato oggettivo consistente nell’esistenza di una relazione di interessi tra autore dell’atto ed imprenditore avvantaggiato; in carenza del quale l’attività del primo può integrare un illecito ex art. 2043, c.c., non anche un atto di concorrenza sleale. (Nella specie, un rappresentante di commercio di tre diverse imprese aveva compiuto atti diretti a sviare la clientela di un imprenditore in favore di una impresa da lui non rappresentata; la S.C., in applicazione del succitato principio di diritto, ha cassato la sentenza impugnata, la quale aveva ritenuto la responsabilità del rappresentante di commercio ex art. 2598, c.c., anche in mancanza di prova della esistenza di una relazione di interessi tra il predetto e l’imprenditore concorrente avvantaggiato dall’atto di concorrenza sleale).

[adrotate group=”8″]

Cass. civ. n. 5375/2001

Il principio secondo il quale la concorrenza sleale deve ritenersi fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza, non configurabile, pertanto, ove manchi tale presupposto soggettivo (il cosiddetto «rapporto di concorrenzialità»), non esclude la legittima predicabilità dell’illecito concorrenziale anche quando l’atto lesivo del diritto del concorrente venga compiuto da un soggetto (cosiddetto terzo interposto) il quale, pur non possedendo egli stesso i necessari requisiti soggettivi (non essendo, cioè, concorrente del danneggiato), agisca tuttavia per conto di (o comunque in collegamento con) un concorrente del danneggiato stesso, essendo egli stesso legittimato a porre in essere atti che ne cagionino vantaggi economici. In tal caso, pertanto, il terzo va legittimamente ritenuto responsabile, in solido, con l’imprenditore che si sia giovato della sua condotta, mentre, mancando del tutto siffatto collegamento tra il terzo autore del comportamento lesivo del principio della correttezza professionale e l’imprenditore concorrente del danneggiato, il terzo stesso è chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 2043 c.c., e non anche del successivo art. 2598, con tutte le conseguenti differenze in tema di prova dell’elemento psicologico dell’illecito de quo. (Nell’affermare il principio di diritto che precede, la Suprema Corte ha, peraltro, confermato, nella specie, la sentenza del giudice di merito, che aveva ritenuto la sussistenza dell’ipotesi concorrenziale tipica ex art. 2598 n. 3 c.c. nel comportamento della Camera di commercio di Gorizia – che aveva arbitrariamente ampliato i confini della cosiddetta «zona franca» consentendo, in tal modo, ai produttori di birra residenti di estendere la loro attività fiscalmente agevolata al più ampio territorio provinciale in danno dei concorrenti di diversa residenza, chiamati ad affrontare un maggior costo d’impresa – poiché in nessuna delle due fasi di merito era stata sollevata la questione della mancanza di collegamento tra la predetta Camera di commercio e gli imprenditori avvantaggiati, e le relative doglianze, rappresentate per la prima volta in sede di giudizio di legittimità, erano da considerarsi inammissibili in rito, pur se fondate in fatto).

[adrotate group=”8″]

Cass. civ. n. 1617/2000

In tema di concorrenza sleale, presupposto indefettibile della fattispecie di illecito prevista dall’art. 2598 c.c. è la sussistenza di una effettiva situazione concorrenziale tra soggetti economici, il cui obiettivo consiste nella conquista di una maggiore clientela a danno del concorrente. Ne consegue che la comunanza di clientela — data non già dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti delle due imprese, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato, e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti che quel bisogno sono idonei a soddisfare – è elemento costitutivo di detta fattispecie, la cui assenza impedisce ogni concorrenza, non potendo ritenersi decisiva di per sé, a tali effetti, la circostanza, da utilizzare solo come criterio integrativo, della identità del procedimento di commercializzazione adottato. Peraltro, la sussistenza della predetta comunanza di clientela va verificato anche in una prospettiva potenziale, dovendosi, al riguardo, esaminare se l’attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e, quindi, su quello merceologico, l’offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti affini o succedanei rispetto a quelli attualmente offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale. (Nella fattispecie, la S.C. ha confermato la decisione della corte di merito che, in difformità da quella del giudice di primo grado, aveva escluso la configurabilità della concorrenza sleale nell’attività di una società che offriva prodotti per il corpo direttamente a domicilio dei consumatori, attraverso un particolare sistema di concessionarie, già adottato da altra società, produttrice di contenitori di uso casalingo).

[adrotate group=”8″]

Cass. civ. n. 11047/1998

In tema di concorrenza sleale, l’attacco ingiusto diretto a ledere le posizioni ed i diritti tutelati dall’art. 2598 c.c., e, in particolare, idoneo a confondere il pubblico circa la qualità merceologica dei prodotti offerti, con evidente vantaggio conseguente ad una comparazione tra i prezzi di vendita che non dia conto, in virtù della confusione così ingenerata nel consumatore, della differente struttura del costo di produzione, legittima una reazione, da parte del soggetto leso, volta a ristabilire la verità dei fatti onde consentire al pubblico la conoscenza circa la intrinseca diversità tra i prodotti rispettivamente commercializzati, senza che l’autore della reazione possa essere considerato responsabile del danno conseguentemente arrecato all’aggressore, e senza che spieghi influenza, in contrario, la natura extracontrattuale dell’illecito di cui all’art. 2598 c.c. (Nella specie, la Federargentieri aveva denunciato, attraverso una campagna di stampa, la diffusione di un fenomeno commerciale, ritenuto poi scorretto anche in sede giurisdizionale, consistente nella immissione sul mercato, da parte di svariate imprese, di oggetti in materiale sintetico rivestiti da una sottile patina d’argento applicata mediante bagno galvanico, oggetti sui quali veniva apposto il marchio contrassegnante i prodotti in metallo prezioso ed il relativo titolo in millesimi, così da farli apparire e porre in vendita come prodotti d’argenteria, introducendo sul mercato un inammissibile fattore di confusione. La S.C., nell’enunciare il principio di diritto di cui in massima, ha confermato la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto legittimo, sotto il profilo dell’autotutela, tale comportamento della parte lesa).

[adrotate group=”8″]

Cass. civ. n. 6887/1996

La concorrenza sleale deve, comunque, consistere in attività dirette ad appropriarsi illegittimamente dello spazio di mercato ovvero della clientela del concorrente, che si concretino nella confusione dei segni prodotti, nella diffusione di notizie e di apprezzamenti sui prodotti e sull’attività del concorrente o in atti non conformi alla correttezza professionale; con la conseguenza che l’illecito non pub derivare dal danno commerciale in sé, né nel fatto che una condotta individuale di mercato produca diminuzione di affari nel concorrente, in quanto il gioco della concorrenza rende legittime condotte egoistiche, dirette al perseguimento di maggiori affari, attuate senza rottura delle indicate regole legali della concorrenza. (Affermando tale principio, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito che non ha ritenuto configurabile un illecito concorrenziale nell’attività di una impresa di vendite per corrispondenza, la quale, acquistati legittimamente all’estero diversi capi d’abbigliamento di una casa italiana d’alta moda, li ha messi in vendita mediante catalogo postale, non determinando tale attività una scorretta ingerenza nella diffusione selettiva e nell’organizzazione d’impresa della casa di moda).

[adrotate group=”8″]

Cass. civ. n. 12103/1995

L’illecito concorrenziale di cui all’art. 2598 c.c. non si perfeziona necessariamente attraverso la produzione di un pregiudizio attuale al patrimonio del soggetto concorrente, essendo sufficiente la potenzialità o il pericolo di un danno, concretantesi nell’idoneità della condotta vietata a cagionare un pregiudizio.

[adrotate group=”8″]

Cass. civ. n. 4096/1991

Anche con riguardo a società che, sebbene sciolta, non sia ancora estinta, l’attualità dell’esercizio dell’attività sociale di impresa implica che ben possono qualificarsi come di concorrenza sleale gli atti ex art. 2598 c.c. idonei a pregiudicare gli interessi dell’azienda sociale.

[adrotate group=”8″]

Cass. civ. n. 4755/1986

Con riguardo al pregiudizio che la reputazione del prodotto d’impresa subisca a causa del comportamento altrui, come nel caso di merce che riceva uno svilimento dal fatto del rivenditore che la consegni in confezioni rovinate o manomesse (nella specie, trattandosi di profumi ed altri articoli di bellezza), la non configurabilità di atti di concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598 c.c., per difetto dei relativi requisiti, quale, nella suddetta ipotesi, la mancanza di un avvantaggiamento dell’imprenditore concorrente per effetto di quel comportamento del rivenditore, non implica di per sé che il comportamento medesimo debba essere considerato espressione del principio di libera concorrenza, potendo esso integrare gli estremi dell’illecito aquiliano, ove l’indicato pregiudizio della reputazione della merce venga a riflettersi negativamente sulla reputazione dell’impresa produttrice, e quindi sulla sua sfera patrimoniale.

[adrotate group=”8″]

[adrotate group=”7″]

Se la soluzione non è qui, contattaci

Non esitare, siamo a tua disposizione

Email

Esponi il tuo caso allegando, se del caso, anche dei documenti

Telefono

Una rapida connessione con gli avvocati del nostro team

Chat

On line ora! Al passo con i tempi per soddisfare le tue esigenze