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Art. 1362 — Intenzione dei contraenti

Art. 1362 — Intenzione dei contraenti

Nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole.

Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto [ 1326 ].

L’eventuale comma dell’articolo ricompreso fra parentesi quadre è stato abrogato.

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Aggiornato al 1 gennaio 2020
Il testo riportato è reso disponibile agli utenti al solo scopo informativo. Pertanto, unico testo ufficiale e definitivo è quello pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale Italiana che prevale in casi di discordanza rispetto al presente.
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Massime correlate

Cass. civ. n. 11828/2018

Nei contratti soggetti alla forma scritta “ad substantiam”, il criterio ermeneutico della valutazione del comportamento complessivo delle parti, anche successivo alla stipula del rogito, può essere utilizzato solo per chiarire l’interpretazione del contenuto del contratto, per come desumibile dal testo, non per integrare la portata e la rilevanza giuridica della dichiarazione negoziale.

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Cass. civ. n. 11190/2018

In tema di contratti degli enti pubblici, stante il requisito della forma scritta imposto a pena di nullità per la stipulazione di tali contratti, la volontà degli enti predetti dev’essere desunta esclusivamente dal contenuto dell’atto, interpretato secondo i canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., non potendosi fare ricorso alle deliberazioni degli organi competenti, le quali, essendo atti estranei al documento contrattuale, assumono rilievo ai soli fini del procedimento di formazione della volontà, attenendo alla fase preparatoria del negozio e risultando pertanto prive di valore interpretativo o ricognitivo delle clausole negoziali, a meno che non siano espressamente richiamate dalle parti; né può aversi riguardo, per la determinazione della comune intenzione delle parti ex art. 1362, comma 2, c.c., alle deliberazioni adottate da uno degli enti successivamente alla conclusione del contratto ed attinenti alla fase esecutiva del rapporto, in quanto aventi carattere unilaterale.

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Cass. civ. n. 16181/2017

Nell’interpretazione del contratto, che è attività riservata al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei canoni ermeneutici o vizio di motivazione, il carattere prioritario dell’elemento letterale non va inteso in senso assoluto, atteso che il richiamo nell’art. 1362 c.c. alla comune intenzione delle parti impone di estendere l’indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici anche laddove il testo dell’accordo sia chiaro ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti.

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Cass. civ. n. 23701/2016

In tema di interpretazione del contratto, l’elemento letterale, sebbene centrale nella ricerca della reale volontà delle parti, deve essere riguardato alla stregua di ulteriori criteri ermeneutici e, segnatamente, di quello funzionale, che attribuisce rilievo alla “ragione pratica” del contratto, in conformità agli interessi che le parti hanno inteso tutelare mediante la stipulazione negoziale. (Così statuendo, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, in una controversia fondata sul diritto del conduttore ad ottenere l’indennità per miglioramenti ed addizioni alla cosa locata, aveva rigettato la domanda sulla scorta del tenore letterale di una clausola contenuta in un successivo contratto di compravendita stipulato tra le medesime parti, interpretando, erroneamente, l’impegno dell’acquirente, già conduttore dell’immobile, ad accettare lo stesso “nello stato di fatto e nella condizione di diritto in cui si trova”, come volontà di rinunciare al diritto di credito per le addizioni apportate nel tempo al bene locato).

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Cass. civ. n. 14355/2016

L’interpretazione del contratto, traducendosi in una operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in una indagine di fatto riservata al giudice di merito, censurabile in cassazione, oltre che per violazione delle regole ermeneutiche, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per inadeguatezza della motivazione, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione antecedente alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, oppure – nel vigore della novellato testo di detta norma – nella ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti

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Cass. civ. n. 9380/2016

A norma dell’art. 1362 c.c., il dato testuale del contratto, pur importante, non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione della volontà delle parti, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé chiare, atteso che un’espressione “prima facie” chiara può non risultare più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti; ne consegue che l’interpretazione del contratto, da un punto di vista logico, è un percorso circolare che impone all’interprete, dopo aver compiuto l’esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l’intenzione delle parti e quindi di verificare se quest’ultima sia coerente con le parti restanti del contratto e con la condotta delle stesse.

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Cass. civ. n. 12360/2014

In tema di interpretazione del contratto, il principio “in claris non fit interpretatio” presuppone che la formulazione testuale sia talmente chiara ed univoca da precludere la ricerca di una volontà diversa. A tal fine il giudice ha il potere-dovere di stabilire se la comune intenzione delle parti risulti in modo certo ed immediato dalla dizione letterale del contratto, attraverso una valutazione di merito che consideri il grado di chiarezza della clausola contrattuale mediante l’impiego articolato dei vari canoni ermeneutici, ivi compreso il comportamento complessivo delle parti, in quanto la lettera (il senso letterale), la connessione (il senso coordinato) e l’integrazione (il senso complessivo) costituiscono strumenti interpretativi legati da un rapporto di implicazione necessario al relativo procedimento ermeneutico. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, secondo la quale, nell’interpretare una norma dello statuto del Fondo pensioni per il personale del Credito Bergamasco, il mero riferimento all’assemblea degli iscritti non consentiva di ritenere inequivoca la volontà statutaria di attribuire anche agli ex dipendenti titolari del trattamento pensionistico integrativo, e non solo ai lavoratori attivi, il diritto di partecipazione all’assemblea).

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Cass. civ. n. 12535/2012

In tema di interpretazione del contratto, il comportamento tenuto dalle parti dopo la sua conclusione, cui attribuisce rilievo ermeneutico il secondo comma dell’art. 1362 c.c., è solo quello di cui siano stati partecipi entrambi i contraenti, non potendo la comune intenzione delle parti emergere dall’iniziativa unilaterale di una di esse, corrispondente ai suoi personali disegni.

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Cass. civ. n. 925/2012

Le regole legali di ermeneutica contrattuale sono governate da un principio di gerarchia, in forza del quale i criteri degli artt. 1362 e 1363 c.c. prevalgono su quelli integrativi degli artt. 1365-1371 c.c., posto che la determinazione oggettiva del significato da attribuire alla dichiarazione non ha ragion d’essere quando la ricerca soggettiva conduca ad un utile risultato ovvero escluda da sola che le parti abbiano posto in essere un determinato rapporto giuridico. Ne consegue che l’adozione dei predetti criteri integrativi non può portare alla dilatazione del contenuto negoziale mediante l’individuazione di diritti ed obblighi diversi da quelli contemplati nel contratto o mediante l’eterointegrazione dell’assetto negoziale previsto dai contraenti, neppure se tale adeguamento si presenti, in astratto, idoneo a ben contemperare il loro interessi. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, la quale aveva interpretato una fideiussione, rilasciata in occasione della vendita di una quota sociale e prestata a garanzia di “quanto così ceduto”, nel senso che essa garantisse, secondo la sua causa concreta, la disponibilità e libertà della quota non relativamente a qualsiasi evento, ma soltanto a quelli afferenti al socio cedente, con esclusione degli eventi pregiudizievoli anteriori ed imputabili a soggetti diversi).

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Cass. civ. n. 14460/2011

Nell’interpretare la clausola del regolamento di condominio contenente il divieto di destinare gli appartamenti a determinati usi, si deve considerare che l’esatto significato lessicale delle espressioni adoperate può non corrispondere all’intenzione comune delle parti, allorché i singoli vocaboli utilizzati possiedano un preciso significato tecnico-scientifico, proprio di determinate nozioni specialistiche, non necessariamente a conoscenza dei dichiaranti in tutte le sue implicazioni. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, in presenza di una clausola recante il divieto di destinare gli appartamenti ad uso “di gabinetto di cura malattie infettive o contagiose”, aveva escluso la possibilità di adibire l’immobile a studio medico dermatologico, senza tener conto dell’intero contenuto della clausola in questione e senza accertare l’effettiva destinazione dell’immobile, desumendola non da elementi di fatto concreti ma dalla sola specializzazione medica del proprietario del bene).

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Cass. civ. n. 12297/2011

Nei contratti soggetti alla forma scritta “ad substantiam”, il criterio ermeneutico della valutazione del comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla stipulazione del contratto stesso, non può evidenziare una formazione del consenso al di fuori dello scritto medesimo.

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Cass. civ. n. 11295/2011

Il comportamento delle parti contrario a buona fede oggettiva e posteriore alla conclusione del contratto non può essere valutato come canone interpretativo dello stesso ai sensi dell’art. 1362, secondo comma, c.c., al fine di escludere la vessatorietà di una delle clausole in esso contenute. Tale clausola, ove risulti in sede interpretativa contraria a buona fede, va espunta dal contratto per la sua nullità. (Fattispecie relativa a clausola limitativa di responsabilità in contratto assicurativo).

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Cass. civ. n. 9786/2010

In tema di interpretazione del contratto, il giudice di merito, nel rispetto degli artt. 1362 e 1363 cod. civ., per individuare quale sia stata la comune intenzione delle parti, deve preliminarmente procedere all’interpretazione letterale dell’atto negoziale e, cioè, delle singole clausole significative, nonché delle une per mezzo delle altre, dando contezza in motivazione del risultato di tale indagine. Solo qualora dimostri, con argomentazioni convincenti, l’impossibilità (e non la mera difficoltà) di conoscere la comune intenzione delle parti attraverso l’interpretazione letterale, potrà utilizzare i criteri sussidiari di interpretazione, in particolare il comportamento delle parti successivo alla conclusione del contratto ed il principio di conservazione. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, che aveva interpretato un contratto di cessione di beni, utilizzando il criterio del comportamento successivo delle parti sul mero presupposto che “un’univoca esegesi fosse particolarmente difficoltosa, quasi impossibile”).

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Cass. civ. n. 19104/2009

In materia contrattuale, è rimesso all’apprezzamento del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua e corretta motivazione, lo stabilire se una determinata clausola contrattuale sia soltanto di stile ovvero costituisca espressione di una concreta volontà negoziale con efficacia normativa del rapporto. Tuttavia, sia per il principio di conservazione delle clausole contrattuali, sia perché rispondente all’interesse dell’acquirente di un immobile a non esser limitato nella disponibilità e nel godimento del medesimo, non può ritenersi generica ed indeterminata, e pertanto di stile, senza ulteriori argomenti al riguardo, la clausola secondo la quale l’alienante garantisce la libertà del bene da ipoteche, pesi e trascrizioni pregiudizievoli, pur se essa è sintetica e onnicomprensiva.

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Cass. civ. n. 17341/2008

Ai fini dell’accertamento dell’ambito oggettivo di un contratto quadro relativo alla prestazione di servizi di investimento, il giudice di merito non può fermarsi all’intitolazione enunciativa del contratto, ma deve esaminare l’intero contenuto delle pattuizioni contrattuali, astenendosi dal conferire rilievo, ai sensi dell’art. 1362 c.c., al comportamento successivo dell’investitore, ove lo stesso si sia sostanziato nel conferimento di ordini di borsa che, privi del necessario fondamento causale nel contratto quadro per avere ecceduto dai limiti oggettivi dello stesso, non risultino a loro volta impartiti nella forma scritta richiesta dall’art. 23, comma 1, del D.L.vo 24 febbraio 1998, n. 58. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, la quale aveva escluso la responsabilità di una S.I.M. per i danni derivanti dall’esecuzione di operazioni su derivati esteri, senza tener conto che il contratto quadro sottoscritto dall’investitore, pur riferendosi genericamente, nell’intitolazione, alla negoziazione di strumenti finanziari collegati a valori mobiliari quotati «nei mercati regolamentati» ed ai relativi indici, conteneva una clausola che limitava espressamente l’oggetto del contratto al servizio di negoziazione di prodotti derivati italiani).

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Cass. civ. n. 6366/2008

Nell’interpretare la norma collettiva, il giudice del merito può limitarsi a ricercare la comune intenzione delle parti sulla base del tenore letterale della sola clausola da interpretare soltanto se questo riveli l’intenzione delle parti con evidenza tale da non lasciare alcuna perplessità sull’effettiva portata della clausola, dovendo far ricorso, in caso contrario, alla valutazione del comportamento successivo delle parti nell’applicazione della clausola ed alla considerazione di tutti gli altri criteri ermeneutici indicati dagli articoli 1362 e seguenti c.c. (Nella specie, al fine di valutare se la previsione dell’art. 40 del ccnl 26 novembre 1994 per i dipendenti delle poste, che elevava il periodo di comporto a 24 mesi per alcune patologie, recasse un’indicazione meramente esemplificativa ovvero tassativa delle patologie rilevanti, la S.C. ha ritenuto insufficiente il ricorso al mero criterio letterale ed ha cassato con rinvio la sentenza impugnata).

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Cass. civ. n. 22536/2007

L’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di emeneutica contrattuale, di cui agli artt. 1362 e seguenti c.c. o di motivazione inadeguata ovverosia non idonea a consentire la ricostruzione dell’
iter logico seguito per giungere alla decisione. Pertanto onde far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma occorre, altresì, precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa.

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Cass. civ. n. 19928/2007

In tema di interpretazione del contratto ex art. 1362 c.c., il comportamento delle parti posteriore alla conclusione dello stesso che può assumere rilievo ai fini della sua interpretazione, è solo quello posto in essere in esecuzione ed in riferimento a quel contratto e non, quindi, un comportamento che si estrinsechi in ulteriori accordi modificativi dei precedenti, dai quali deriva un assetto negoziale autonomo e distinto, fonte di nuovi diritti ed obblighi contrattuali. (Fattispecie in cui la S.C. ha escluso che ai fini di individuazione della comune intenzione delle parti potesse essere rilevante un successivo, ma diverso e autonomo contratto intercorso tra le medesime parti, il quale prevedeva una clausola di proroga non inclusa nel precedente).

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Cass. civ. n. 18303/2007

Pur essendo irrilevante il nomen iuris assegnato dalle parti ad un contratto, nondimeno ai fini della ricostruzione dell’intento degli stipulanti, secondo le norme degli art. 1362 c.c. e seguenti, anche la qualificazione è parte delle parole usate e contribuisce ad offrire elementi per ricostruire la comune intenzione dei contraenti; in particolare, dovendosi procedere a verificare la corrispondenza del nomen con il contenuto negoziale, va ritenuta compatibile con la nozione legale di agenzia sia la previsione dello svolgimento dell’attività di promozione svolta dall’agente avvalendosi, a sua volta, di altri agenti coordinati e controllati, sia la carenza di una formale ed espressa indicazione della zona di espletamento dell’incarico, allorché tale indicazione sia per altro verso evincibile dal riferimento all’ambito territoriale in cui le parti operano al momento dell’instaurazione del rapporto.

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Cass. civ. n. 15921/2007

In tema di accertamento del diritto di servitù, è legittimo il richiamo operato dal giudice del merito alle espletate prove per testimoni sul concreto esercizio del diritto, a conferma del risultato interpretativo conseguito sulla base del primario criterio ermeneutico della lettera del titolo negoziale ai sensi dell’articolo 1362, primo comma, c.c. Tale richiamo, infatti, è consentito dal secondo comma di detto articolo di legge; che, appunto, al fine di determinare la comune intenzione delle parti, prevede la valutazione del loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione del contratto, e ciò senza violazione alcuna sia del requisito formale, ad substantiam previsto per i contratti costitutivi di servitù prediali (articolo 1350 n. 4 c.c.), sia delle norme regolatrici della servitù (articolo 1063 c.c.), secondo cui la estensione e l’esercizio delle servitù sono regolati dal titolo e, in mancanza, dai precetti sussidiari di cui agli articoli 1064 e 1065 c.c.

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Cass. civ. n. 12721/2007

La scelta da parte del giudice del merito del mezzo ermeneutico più idoneo all’accertamento della comune intenzione dei contraenti non è sindacabile in sede di legittimità qualora sia stato rispettato il principio del «gradualismo» secondo il quale deve farsi ricorso (anche in caso di atti negoziali unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale ex art. 1324 c.c.) ai criteri interpretativi sussidiari, come l’
interpretatio contra stipulatorem in presenza di modulo predisposto da uno dei contraenti ai sensi dell’art. 1370 c.c., solo quando risulti non appagante il ricorso ai criteri di cui agli artt. 1362-1365 c.c., ed il giudice fornisca compiuta ed articolata motivazione della ritenuta equivocità ed insufficienza del dato letterale.

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Cass. civ. n. 4176/2007

In tema di interpretazione del contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto; il rilievo da assegnare alla formulazione letterale dev’essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, e le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 c.c., e dovendosi intendere per «senso letterale delle parole» tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato, (Sulla base di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che, in relazione ad un contratto di appalto di opere pubbliche stipulato da un Comune; — ha ritenuto che le parti avessero inteso recepire, col meccanismo della relatio perfecta tutte le disposizioni legislative e regolamentari relative agli appalti di opere pubbliche stipulati dallo Stato contenute negli artt. da 43 a 51 del DPR n. 1063 del 1962, ivi compreso l’art. 47 nel testo ripristinato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 152 del 1996, e quindi il complessivo meccanismo di tutela giurisdizionale previsto da detto decreto; — ha interpretato la complessiva disciplina contrattuale nel senso di autorizzare ciascuna parte a ricorrere ad un collegio arbitrale con facoltà della controparte di declinare la competenza arbitrale a favore di quella ordinaria).

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Cass. civ. n. 420/2006

In tema di interpretazione del contratto, il procedimento di qualificazione giuridica consta di due fasi, delle quali la prima — consistente nella ricerca e nella individuazione della comune volontà dei contraenti — è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e seguenti c.c., mentre la seconda — concernente l’inquadramento della comune volontà, come appurata, nello schema legale corrispondente — risolvendosi nell’applicazione di norme giuridiche può formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia per quanto attiene alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia infine con riferimento alla individuazione delle implicazioni effettuali conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo.

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Cass. civ. n. 415/2006

In materia di interpretazione del contratto, il comportamento tenuto dalle parti successivamente alla sua conclusione può rilevare ai fini ermeneutici solo qualora integri gli estremi della condotta comune ad entrambe, al fine di meglio stabilire quale fosse la loro comune intenzione in ordine al contenuto della pattuizione.

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Cass. civ. n. 13399/2005

In tema di interpretazione del contratto, il procedimento di qualificazione giuridica consta di due fasi: la prima — consistente nella ricerca e nella individuazione della comune volontà dei contraenti è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e seguenti c.c.; la seconda è quella della qualificazione che procede secondo il modello della sussunzione, cioè del confronto tra fattispecie contrattuale concreta e tipo astrattamente definito dalla norma per verificare se la prima corrisponde al secondo. Questa seconda fase comporta applicazione di norme giuridiche ed il giudice non è vincolato dal nomen juris adoperato dalle parti, ma può correggere la loro autoqualificazione quando riscontri che non corrisponde alla sostanza del contratto come da esse voluto. La ricostruzione data dal giudice di merito è incensurabile in sede di legittimità allorquando si risolva nella richiesta di una nuova valutazione dell’attività negoziale oppure nella contrapposizione di un’interpretazione della medesima a quella del giudice di merito. (Nella specie la S.C. ha ritenuto che la sentenza impugnata avesse correttamente qualificato l’operazione contrattuale portata a termine dalle parti come contratto preliminare di vendita per se o persona da nominare e subentro nel suddetto preliminare, con esclusione di attività di mediazione tra gli stessi contraenti in relazione al medesimo affare).

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Cass. civ. n. 12120/2005

I criteri legali di ermeneutica contrattuale sono governati da un principio di gerarchia interna in forza del quale i canoni strettamente interpretativi prevalgono su quelli interpretativi integrativi — quale va considerato anche il principio di buona fede, sebbene questo rappresenti un punto di collegamento tra le due categorie — e ne escludono la concreta operatività, quando l’applicazione degli stessi canoni strettamente interpretativi risulti da sola sufficiente a rendere palese la comune intenzione delle parti stipulanti, tenuto conto, peraltro, che, nell’interpretazione del contratto, il dato testuale, pur assumendo un rilievo fondamentale, non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione del contenuto dell’accordo, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, il quale non può arrestarsi alla ricognizione del tenore letterale delle parole, ma deve estendersi alla considerazione di tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé «chiare» e non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un’espressione prima facie chiara può non apparire più tale, se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti. (Fattispecie relativa all’interpretazione di contratto di locazione con riguardo all’uso dell’immobile locato).

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Cass. civ. n. 5954/2005

Nell’interpretazione del contratto, operazione istituzionalmente riservata al giudice di merito l’interpretazione comune che di esso danno le parti, pur non vincolando il giudice, in quanto costituente solo un canone ermeneutico, deve essere tenuta in particolare considerazione. Inoltre, poiché il giudice è vincolato alla domanda e ai fatti confessati dalle parti e poiché l’individuazione della volontà contrattuale ha ad oggetto una realtà fenomenica ed obbiettiva e costituisce un accertamento fattuale del giudice di merito, questi non può adottare un’interpretazione della volontà contrattuale contraria a quanto espressamente e concordemente affermato dalle parti in giudizio e posto pacificamente a base delle loro pretese.

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Cass. civ. n. 5624/2005

Costituisce questione di merito, rimessa al giudice competente, valutare il grado di chiarezza della clausola contrattuale, ai fini dell’impiego articolato dei vari criteri ermeneutici; deve escludersi, quindi, che nel giudizio di cassazione possa procedersi a una diretta valutazione della clausola contrattuale, al fine di escludere la legittimità del ricorso da parte del giudice di merito al canone ermeneutico del comportamento successivo delle parti.

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Cass. civ. n. 23978/2004

L’espressione «senso letterale delle parole» deve intendersi riferita all’intera formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte e in ogni parola che la compone, e non già limitata ad una parte soltanto o addirittura a singole parole di essa, per cui il giudice, nell’interpretazione di una clausola negoziale, non può arrestarsi ad una considerazione atomistica, utilizzando esclusivamente singole proposizioni o frasi di essa, ma deve verificare il contenuto complessivo del documento (nella specie, atto amministrativo); pertanto, non deroga il giudice all’obbligo di rispettare il criterio primario di cui al primo comma dell’art. 1362 c.c., se ritiene che all’interno di una delibera di approvazione di progetto di opera pubblica, accanto all’esplicita fissazione dei termini per la procedura espropriativa, sia presente la previsione dei diversi termini per il compimento dei lavori, anche se distaccata dalla prima, in quanto dislocata in altra parte dell’atto, in cui si dispone l’inserimento, nel bando di concorso per l’affidamento dei lavori in appalto, della clausola su una determinata durata dei lavori, decorrente dalla consegna all’appaltatore.

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Cass. civ. n. 18670/2004

Nell’interpretazione del contratto, il carattere prioritario dell’elemento letterale non va inteso in senso assoluto, in quanto il richiamo contenuto nell’art. 1362 c.c. alla comune volontà delle parti impone, per individuarla, di estendere l’indagine anche all’elemento logico ed anche, qualora una complessa operazione negoziale sia stata posta in essere con la redazione di più contratti, facendo ricorso all’esame dei contratti presupposti, anche se essi siano stati conclusi da parti diverse. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, per interpretare un contratto di compravendita di un immobile nel quale si dava atto dell’avvenuta costituzione di una servitù temporanea che correva attraverso vari fondi oggetto di separati contratti, aveva ritenuto necessario, per ricostruire i caratteri della servitù e verificarne contenuto e limiti, esaminare ed interpretare unitariamente tutti i rogiti).

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Cass. civ. n. 16144/2004

Il contratto di lavoro dà origine ad un rapporto che, fondato sulla volontà delle parti, si protrae nel tempo, restando, tale volontà, inscritta in ogni atto di esecuzione del contratto. L’esecuzione, esprimendo soggettivamente la suddetta volontà ed oggettivamente la causa contrattuale, e protraendosi nel tempo, resta (ai sensi dell’art. 1362 secondo comma c.c.) lo strumento d’emersione di una nuova diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell’attuazione del rapporto e diretta a modificare singole sue clausole e talora la stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista, conferendo, al medesimo, un nuovo assetto negoziale.

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Cass. civ. n. 15721/2004

In tema di interpretazione di accordo aziendale stipulato dall’imprenditore con organismi rappresentativi dei lavoratori, può rilevare, ai fini della determinazione della comune intenzione delle parti stipulanti, il comportamento del datore di lavoro, e non già quello dei singoli lavoratori, i quali sono estranei alla formazione dell’accordo e rappresentano solo i destinatari della disciplina negoziale.

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Cass. civ. n. 13886/2004

La erronea interpretazione del contratto individuale di lavoro da parte del giudice del merito attiene ad un punto decisivo, ed è perciò idonea a comportare la cassazione della sentenza, solo ove si dimostri che con la interpretazione propugnata il ricorrente conseguirebbe l’oggetto della pretesa. Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva respinto la domanda di un agente di commercio diretta ad ottenere la condanna del proponente alla riliquidazione in suo favore della indennità di scioglimento del rapporto nella misura massima di legge — dovutagli, secondo la prospettazione del ricorrente, per il fatto che il suo contratto di lavoro avrebbe richiamato sul punto non già l’accordo collettivo, come ritenuto nella sentenza impugnata, ma la disciplina legale di cui all’art. 1751 c.c. — alla stregua della circostanza della mancata dimostrazione che la interpretazione invocata dal ricorrente avrebbe consentito la liquidazione della indennità in misura maggiore di quanto spettante sulla base dei criteri di cui all’accordo economico collettivo).

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Cass. civ. n. 13839/2004

In tema di interpretazione del contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione delle parti contraenti, ex art. 1362 c.c., il primo e principale strumento dell’operazione interpretativa è costituito dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, e, quando si faccia riferimento al comportamento delle parti, esso può essere preso in considerazione solo come comportamento complessivo di esse, essendo inidoneo il contegno isolato di una sola delle parti ad evidenziare il contenuto di un proposito comune.

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Cass. civ. n. 10484/2004

A norma dell’art. 1362 c.c. l’interpretazione del contratto richiede la determinazione della comune intenzione delle parti, da accertare sulla base del senso letterale delle parole adoperate e del loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione del contratto. L’elemento letterale e quello del comportamento delle parti devono porsi, pertanto, in posizione paritaria, onde il giudice non può sottrarsi a tale duplice indagine allegando una pretesa chiarezza del significato letterale del contratto. Anche con riferimento ai contratti conclusi per fatta concludentia ove non sia richiesta la prova scritta ad substantiam opera come principale criterio ermeneutico quello di individuazione della volontà delle parti, desumibile, in assenza di un testo scritto, non dal senso letterale delle parole, ma dal comportamento complessivo delle parti anche posteriore alla conclusione del contratto.

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Cass. civ. n. 6233/2004

Nell’interpretazione dei contratti, gli strumenti dell’interpretazione letterale (art. 1362, comma primo, c.c.), del coordinamento delle varie clausole e della individuazione del senso che emerge dal complesso dell’atto (art. 1363) sono legati da un rapporto di necessità ed interdipendenza (diversamente dallo strumento di cui all’art. 1362, secondo comma, che ha rilievo solo eventuale) e assumono funzione fondamentale; di conseguenza, non è possibile isolare frammenti letterali della clausola da interpretare, ma è necessario considerare il testo nella sua complessità, raffrontare e coordinare tra loro frasi e parole, onde ricondurle ad armonica unità e concordanza. (Nella specie, la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza impugnata, che, nell’interpretare l’art. 17 dell’accordo interprovinciale degli operai edili della provincia di Udine, aveva ritenuto sussistente l’obbligo del servizio mensa o del convenzionamento con strutture di ristoro solo in presenza di almeno trenta lavoratori interessati, esaminando esclusivamente il terzo comma del suddetto articolo, ma tralasciando di valutare gli elementi emergenti dagli altri commi dello stesso).

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Cass. civ. n. 6053/2004

In tema di interpretazione del contratto, i comportamenti complessivi delle parti, anche posteriori alla conclusione del contratto, hanno funzione ermeneutica e non già integrativa del patto, in quanto per il loro tramite l’interprete, senza limitarsi al senso letterale delle parole, giunge a determinare la comune intenzione delle medesime al momento della stipula, e, quindi, la sostanza stessa dell’accordo, ma non integra la volontà pattizia con elementi ad essa estranei.

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Cass. civ. n. 2216/2004

In riferimento ai criteri ermeneutica dei negozi giuridici, nei contratti per i quali è prevista la forma scritta ad substantiam (come il contratto per cui è causa, avente ad oggetto la costituzione di un diritto di servitù), la ricerca della comune intenzione delle parti, effettuabile ove il senso letterale delle parole presenti un margine di equivocità, deve essere fatta, con riferimento agli elementi essenziali del contratto, soltanto attingendo alle manifestazioni di volontà contenute nel testo scritto, mentre non è consentito valutare il comportamento complessivo delle parti, anche successivo alla stipulazione del contratto, in quanto non può spiegare rilevanza la formazione del consenso ove non sia stata incorporata nel documento scritto.

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Cass. civ. n. 15150/2003

Nell’interpretazione del contratto, il dato testuale, pur assumendo un rilievo fondamentale non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione del contenuto dell’accordo, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, il quale non può arrestarsi alla ricognizione del tenore letterale delle parole, ma deve estendersi alla considerazione di tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé «chiare» e non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un’espressione prima facie chiara può non apparire più tale, se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti.

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Cass. civ. n. 12409/2003

In ragione del limite del sindacato della Corte di Cassazione — cui non è consentita l’interpretazione diretta di disposizioni di natura contrattuale, ancorché interessanti, come quelle collettive, un notevole numero di destinatari, — è «fisiologico» che due opposte interpretazioni di giudici di merito di una medesima disposizione collettiva (nella specie, artt. 46, 47 e 53 del C.C.N.L. dei dipendenti delle Poste Italiane SpA) siano entrambe convalidate o censurate dalla S.C., a seconda del superamento o no del controllo (a questa attribuito) limitato alla verifica della correttezza della motivazione e del rispetto dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 e seguenti c.c.

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Cass. civ. n. 11193/2003

In tema di interpretazione del contratto, alla Corte di cassazione è affidato il compito di verificare che non sussista un vizio di attività del giudice del merito, rilevabile solo nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale e nel caso di riscontro di una motivazione contraria a logica ed incongrua, tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. D’altronde, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, per cui, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra.

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Cass. civ. n. 4129/2003

A norma dell’art. 1362 c.c., l’interpretazione del contratto richiede la determinazione della comune intenzione delle parti, da accertare sulla base del senso letterale delle parole adoperate e del loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione del contratto. Più in particolare, se la parola scritta è il primo oggetto dell’attenzione e della ricerca dell’interprete, quando il testo si presenti non chiaro è necessaria valutare il comportamento, successivo alla conclusione del negozio, tenuto dalle parti. (In applicazione di tale principio, la Corte ha considerato legittima l’interpretazione giudiziale che, in una fattispecie relativa a un contratto di appalto di pulizie, recante una discordanza tra il corrispettivo indicato come importo globale dell’appalto e quello ottenuto sommando le singole «voci» relative alle varie attività che lo componevano, ha escluso l’errore materiale anche sulla base del contegno dei contraenti posteriore alla conclusione dell’accordo).

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Cass. civ. n. 1097/2003

Il principio secondo cui l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, non trova applicazione quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile nell’ambito dell’
error
in procedendo; in tal caso la Corte di cassazione è giudice anche del fatto ed ha, quindi, il potere-dovere di procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali, tenendo conto della situazione dedotta in causa, della volontà effettiva della parte e delle finalità che essa intende perseguire.

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Cass. civ. n. 83/2003

Nell’interpretazione delle clausole contrattuali il giudice di merito deve arrestarsi al significato letterale delle parole, e non può far ricorso agli ulteriori criteri ermeneutici quando dalle espressioni usate dalla parti emerga in modo immediato la volontà comune delle medesime, in quanto il ricorso agli altri criteri interpretativi, al di fuori dalle ipotesi di ambiguità della clausola, presuppone la rigorosa dimostrazione dell’insufficienza del mero dato letterale ad evidenziare in modo soddisfacente la volontà contrattuale. (In applicazione di questo principio di diritto, la S.C. ha ritenuto che avesse fatto corretta applicazione delle norme sulla interpretazione del contratto il giudice di merito che aveva escluso, in base al tenore letterale di un documento prodotto in atti, contenente una riserva di eventuale assunzione, che esso potesse configurarsi come una proposta contrattuale).

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Cass. civ. n. 11707/2002

In tema di interpretazione del contratto, il comportamento complessivo dei contraenti, costituente elemento idoneo per ricavarne la comune volontà, può essere anche quello che, nell’ambito di rapporti che tra le medesime parti si rinnovano e si ripetono in negozi successivi, è desumibile dalla disciplina univoca, costante e ricorrente nei diversi e precedenti contratti aventi lo stesso contenuto, da cui sia lecito presumere che in proseguo le medesime parti ad essa vorranno continuare ad uniformarsi nella stipulazione dei contratti di quel tipo, specie quando ciò avvenga mediante un formulario standard in base ad un testo sempre identico per impostazione e per contenuto.

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Cass. civ. n. 11609/2002

In tema di interpretazione degli atti negoziali, l’art. 1362 c.c., nel prescrivere all’interprete di non limitarsi al senso letterale delle parole, non intende svalutare l’elemento letterale nell’interpretazione, ma anzi ribadire il valore fondamentale e prioritario che esso assume nella ricerca della comune intenzione delle parti, onde il giudice può ricorrere ad altri criteri ermeneutici solo quando le espressioni letterali non siano chiare, precise ed univoche, mentre, quando le suddette espressioni si presentino univoche secondo il linguaggio corrente, il giudice può attribuire alle parti una volontà diversa da quella risultante dalle parole adoperate soltanto se individua ed esplicita le ragioni per le quali le predette parti, pur essendosi espresse in un determinato modo, abbiano in realtà inteso manifestare una volontà diversa.

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Cass. civ. n. 11247/2002

Nei contratti di diritto privato stipulati da un ente pubblico, la volontà negoziale deve essere tratta unicamente dalle pattuizioni intercorse tra le parti contraenti e risultanti dal contratto tra esse stipulato, interpretato secondo i canoni di ermeneutica di cui agli artt. 1362 ss. c.c., senza che possa farsi ricorso alle deliberazioni dei competenti organi dell’ente, le quali attengono alla fase preparatoria e non hanno alcun valore di interpretazione autentica o ricognitivo delle clausole negoziali. Gli eventuali vizi relativi al processo di formazione della volontà dell’ente pubblico comportano l’annullabilità del contratto, la quale può essere fatta valere, in via di azione o di eccezione ai sensi degli artt. 1441 e 1442 c.c., esclusivamente dall’ente stesso e non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità.

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Cass. civ. n. 5635/2002

Le regole legali di ermeneutica contrattuale sono esposte negli artt. 1362 e 1371 c.c. secondo un principio gerarchico: conseguenza immediata è che le norme cosiddette strettamente interpretative, dettate dagli artt. 1362 e 1365, precedono in detta operazione quelle cosiddette interpretative integrative, esposte dagli artt. 1366 e 1371 c.c. e ne escludono la concreta operatività quando la loro applicazione renda palese la comune volontà dei contraenti. Avuto riguardo a questo principio di ordinazione gerarchica delle regole ermeneutiche, nel cui ambito il criterio primario è quello esposto dal primo comma dell’art. 1362 c.c., ne consegue ulteriormente che qualora il giudice del merito abbia ritenuto che il senso letterale delle espressioni impiegate dagli stipulanti riveli con chiarezza ed univocità la loro volontà comune, così che non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l’intento effettivo dei contraenti, detta operazione deve ritenersi utilmente compiuta, anche senza che si sia fatto ricorso al criterio sussidiario del secondo comma dell’art. 1362 c.c. che attribuisce rilevanza ermeneutica al comportamento delle parti successivo alla stipulazione; né, in tale ipotesi, il giudice del merito può comunque desumere elementi contrari dal contegno processuale delle parti ex art. 116, secondo comma, c.p.c:, il quale — tra l’altro — configura un potere discrezionale del giudice, solo il cui esercizio (e non già il mancato esercizio, come accade invece nel caso delle prove tipiche), va dal giudice motivatamente giustificato, versandosi in tema di c.d. prove atipiche o innominate.

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Cass. civ. n. 11089/2001

Nell’interpretazione del contratto l’elemento letterale assume funzione fondamentale, ma la valutazione del complessivo comportamento delle parti non costituisce un canone sussidiario bensì un parametro necessario e indefettibile in quanto le singole espressioni letterali devono essere inquadrate nella clausola questa deve essere raccordata alle altre clausole e al complesso dell’atto deve essere esaminato valutando il complessivo comportamento delle parti. In questa progressiva dilatazione degli elementi dell’interpretazione può assumere rilievo anche il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto, ma deve trattarsi di un comportamento convergente (e tale può essere anche un comportamento unilaterale che sia accettato dall’altra parte contrattuale, eventualmente anche tacitamente) in quanto come è «comune» l’intenzione delle parti, quale fondamentale parametro di interpretazione, «comune» deve essere il comportamento quale parametro strumentale di valutazione della suddetta intenzione. (Nella specie la S.C. ha escluso che il comportamento di una parte consistente nel coltivare la controversia pendente con l’altra parte contrattuale anche dopo la conclusione di una transazione che avrebbe dovuto porvi fine potesse essere uno strumento interpretativo della transazione stessa).

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Cass. civ. n. 15380/2000

Sia per il principio di conservazione delle clausole contrattuali, sia perché rispondente all’interesse dell’acquirente di un immobile a non esser limitato nella disponibilità e nel godimento del medesimo, non può ritenersi generica ed indeterminata e pertanto di stile, senza ulteriori argomenti al riguardo, la clausola secondo la quale l’alienante garantisce la libertà del bene da ipoteche, pesi e trascrizioni pregiudizievoli, pur se essa è sintetica e onnicomprensiva.

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Cass. civ. n. 10250/2000

Nella ricerca della comune intenzione delle parti contraenti ex art. 1362 c.c., il primo e principale strumento dell’operazione interpretativa è costituito dal senso letterale delle parole ed espressioni del contratto, coordinato con l’elemento logico. Il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto che può assumere rilievo in sede di interpretazione di quest’ultimo, o di una sua clausola, è solo quello posto in essere in esecuzione ed in riferimento a quel contratto, e non, quindi, un comportamento che si estrinsechi in ulteriori accordi modificativi dei precedenti, dai quali deriva un assetto negoziale autonomo e distinto, fonte di nuovi diritti ed obblighi contrattuali.

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Cass. civ. n. 9944/2000

Rispetto alla determinazione della natura giuridica di un contratto e al suo inquadramento in uno piuttosto che in altro schema negoziale, non assume rilievo decisivo il nomen iuris eventualmente adottato dalle parti, dovendo la qualificazione «giuridica» essere effettuata sulla base di quanto disposto dalla legge e, quindi, in termini rigorosamente obbiettivi e del tutto distaccati dalla volontà privata. Tuttavia detta «qualificazione» trova il suo ineliminabile presupposto nell’accertamento della «comune intenzione» delle parti, secondo i criteri stabiliti dagli artt. 1362 e ss. c.c. e, se del caso, anche da elementi estrinseci all’atto considerato, ovvero da situazioni complesse, caratterizzate dal collegamento di più fattispecie negoziali. Pertanto deve escludersi che l’amministrazione finanziaria possa (ri)determinare la natura di un contratto, prescindendo dalla volontà concretamente manifestata dalle parti e magari in contrasto con essa.

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Cass. civ. n. 1589/2000

Per interpretare la volontà negoziale della parte che assume un’obbligazione naturale, ben può essere valutato, ai sensi dell’art. 1362 c.c., il successivo comportamento dell’obbligato nella concreta attuazione degli impegni assunti. (Nella specie — in relazione alla delibera della Cassa di Risparmio di Volterra con cui era stato soppresso il Fondo di previdenza aziendale e disposta l’assegnazione in favore dei dipendenti iscritti di determinate somme per la conservazione dei precedenti benefici economici derivanti dall’iscrizione al Fondo — la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva attribuito valore decisivo all’operato della banca, attuativo degli obblighi assunti con la citata delibera, rimasto incontestato da parte dei beneficiari).

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Cass. civ. n. 5734/1997

In tema di interpretazione dei contratti il criterio del riferimento al senso letterale rappresenta lo strumento di interpretazione fondamentale e prioritario, con la conseguenza che, ove le espressioni usate dalle parti siano di chiaro ed inequivoco significato, resta superata la necessità del ricorso agli ulteriori criteri ermeneutici, sempre che l’interpretazione letterale consenta comunque di cogliere la comune intenzione delle parti.

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Cass. civ. n. 5715/1997

In tema di interpretazione dei contratti, l’art. 1362 c.c., pur prescrivendo all’interprete di non limitarsi, nell’attività di ermeneutica negoziale, all’analisi del significato letterale delle parole, non relega tale criterio al rango di strumento interpretativo del tutto sussidiario e secondario, collocandolo, al contrario, nella posizione di mezzo prioritario e fondamentale per la corretta ricostruzione della comune intenzione dei contraenti, con la conseguenza che il giudice, prima di accedere ad altri, diversi parametri di interpretazione, è tenuto a fornire compiuta ed articolata motivazione della ritenuta equivocità ed insufficienza del dato letterale, a meno che tale equivocità non, risulti, ictu oculi; di assoluta non contestabile evidenza.

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Cass. civ. n. 4333/1995

In tema di interpretazione della volontà delle parti (con riferimento, nella specie, ad una transazione intervenuta nel corso di un giudizio di risarcimento del danno) quando l’ambito dell’accordo sia stato individuato sulla base delle pretese dedotte in giudizio, e la comune intenzione delle parti sia stata ricostruita, senza incertezze, in base al testo da esse sottoscritto resta escluso il ricorso al criterio sussidiario del comportamento delle parti successivo all’accordo, sicché qualora la parte abbia rinunziato in tale accordo agli interessi ed alla rivalutazione del capitale, è irrilevante la circostanza che essa abbia egualmente coltivato il giudizio nel quale gli interessi e la rivalutazione erano stati chiesti.

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Cass. civ. n. 3205/1995

Le operazioni collegate all’interpretazione dei contratti possono scomporsi, da un punto di vista strutturale, in varie fasi consistenti, la prima, nella ricerca della comune volontà dei contraenti, la seconda nella descrizione del modello della fattispecie giuridica e, l’ultima, nel giudizio sulla rilevanza giuridica qualificante degli elementi di fatto concretamente accertati. Soltanto le ultime due fasi, risolvendosi nell’applicazione di norme di diritto, possono essere liberamente censurate in sede di legittimità, mentre la prima, configurando un tipo di accertamento di fatto che è riservato al giudice di merito, è sindacabile in cassazione soltanto per difetto di motivazione.

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Cass. civ. n. 7937/1994

Nell’indagine sulla comune volontà dei contraenti non si deve cercare e chiarire l’integrale intenzione di ciascuna parte ma quel tanto delle rispettive intenzioni che si siano fuse, venendo così a dar luogo a quella comune volontà che costituisce la legge del contratto.

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Cass. civ. n. 6484/1994

L’interpretazione degli atti negoziali — che è riservata al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove rispettosa dei criteri legali di ermeneutica contrattuale e sorretta da motivazione immune da vizi — va condotta sulla scorta di due fondamentali elementi che si integrano a vicenda, e cioè il senso letterale delle espressioni usate e la ratio del precetto contrattuale, nell’ambito non già di una priorità di uno dei due criteri ma in quello di un razionale gradualismo dei mezzi d’interpretazione, i quali debbono fondersi ed armonizzarsi nell’apprezzamento dell’atto negoziale.

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Cass. civ. n. 4121/1994

Nella ricerca della comune intenzione delle parti contraenti, il primo e principale strumento dell’operazione interpretativa è costituito dalle parole ed espressioni del contratto e, qualora queste siano chiare e dimostrino una loro intima ratio, il giudice non può ricercarne una diversa, venendo cosa a sovrapporre la propria soggettiva opinione all’effettiva volontà dei contraenti. (Nella specie la sentenza impugnata, cassata dalla S.C., aveva attribuito, in sede di interpretazione di una clausola di un contratto collettivo, preminente rilievo al comportamento successivo delle parti senza aver approfonditamente valutato il significato delle espressioni adoperate).

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Cass. civ. n. 2415/1994

In tema d’interpretazione del contratto, la parte che denunci in cassazione l’erronea determinazione, in sede di merito, della volontà negoziale è tenuta ad indicare quali canoni o criteri interpretativi siano stati violati; in mancanza, l’individuazione della volontà contrattuale — che, avendo ad oggetto una realtà fenomenica ed obiettiva, si risolve in un accertamento di fatto, istituzionalmente riservato al giudice del merito — è censurabile non già quando le ragioni addotte a sostegno della decisione sono diverse da quelle della parte, bensì allorché esse siano insufficienti o inficiate da contraddittorietà logica o giuridica.

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Cass. civ. n. 4507/1993

Il giudice di merito, chiamato ad interpretare il contratto (nella specie, accordo aziendale del 1987), deve arrestarsi al significato letterale delle clausole, che evidenzi chiaramente la volontà delle parti, e non è tenuto a motivare su ipotetici ulteriori significati delle parole usate dai contraenti, potendo il supposto ulteriore senso di queste essere indagato solo nel caso in cui vengano forniti argomentati indizi dell’intenzione delle parti di attribuire alle parole usate un senso diverso da quello del mero significato letterale delle stesse.

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Cass. civ. n. 6610/1991

In tema d’interpretazione del contratto, il contrasto insanabile, sul piano testuale, tra il nomen juris del contratto stesso e le singole clausole dimostra di per sé l’inadeguatezza dell’interpretazione letterale e la necessità del ricorso ai criteri sussidiari, progressivamente, nell’ambito dell’interpretazione soggettiva e storica (artt. 1362-1365 c.c.) e, quindi, in quello dell’interpretazione oggettiva (artt. 1367-1370), cui deve aggiungersi il criterio residuale contenuto nell’art. 1371 c.c. Solo quando la volontà delle parti sia effettivamente e chiaramente individuata, anche con l’eventuale ricorso ai suddetti criteri sussidiari, e tuttavia sussistano clausole in contrasto con il negozio effettivamente voluto, è consentito considerare nulle tali clausole, in base alla disciplina dell’art. 1419, secondo comma, c.c.

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Cass. civ. n. 4914/1991

In tema di interpretazione del contratto, per l’identificazione della comune intenzione delle parti, ai sensi dell’art. 1362 secondo comma c.c. — il quale si riferisce al comportamento dei contraenti — non si può tener conto del comportamento dei soggetti che quel contratto non hanno posto in essere (nella specie: aventi causa delle parti contraenti) e che quindi non possono avere alcun rapporto né con l’interno volere dei contraenti né con i precetti e i comandi nei quali si è oggettivizzata la loro volontà.

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Cass. civ. n. 2009/1988

Le norme sulla interpretazione dei contratti si applicano anche ai negozi unilaterali nei limiti della compatibilità dei criteri stabiliti dagli artt. 1362 e ss. c.c. con la particolare natura e struttura della predetta categoria di negozi. Pertanto, nei negozi unilaterali non può aversi riguardo alla comune intenzione delle parti, che non esiste, ma si deve indagare soltanto quale sia stato l’intento proprio del soggetto che ha posto in essere il negozio senza far ricorso, per determinarlo, alla valutazione del comportamento dei destinatari del negozio stesso.

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Cass. civ. n. 1082/1988

In tema di interpretazione del contratto anche nel caso di formale riproduzione nelle relative clausole di obblighi già nascenti dalla legge o il richiamo espresso di norme di legge comunque integrative della disciplina negoziale l’interprete deve accertare, in base ai criteri legali di ermeneutica, l’effettiva portata del rinvio o del richiamo, atteso che questo, come può avere valore di pura clausola di stile, così può assumere, per volontà delle parti, un particolare significato, che nelle concrete circostanze sia tale da trascendere il limite del dato legale recepito.

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Cass. civ. n. 4472/1987

Il principio in claris non fit interpretatio, anche se non può essere inteso nel suo significato letterale, posto che al giudice del merito spetta sempre l’obbligo di individuare esattamente la volontà delle parti, è sostanzialmente operante quando il significato delle parole usate nel contratto sia tale da rendere, di per sé stesso, palese l’effettiva volontà dei contraenti, nel quale caso l’attività del giudice può — e deve — limitarsi al riscontro della chiarezza e univocità del tenore letterale dell’atto per rilevare detta volontà e diventa inammissibile qualsiasi ulteriore attività interpretativa che condurrebbe il giudice a sostituire la propria soggettiva opinione alla volontà dei contraenti.

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Cass. civ. n. 756/1986

La denominazione che le parti danno ad un istituto contrattuale in tanto assume rilevanza nel procedimento di ermeneutica del negozio giuridico in quanto essa corrisponda al significato giuridico della pattuizione che le parti intendono esprimere, mentre, nel caso in cui sussista divergenza tra il significato della dizione usata ed il contenuto della pattuizione, la qualificazione di quest’ultima va desunta dalla natura della materia dedotta nel patto contrattuale. (Nella specie il giudice del merito aveva ritenuto che la cosiddetta indennità di trasferta forfettizzata, prevista dalla contrattazione collettiva dei dipendenti dell’Enel, non si riferiva al rimborso di spese di una vera e propria trasferta, ma costituiva il corrispettivo del maggior disagio di quei lavoratori che erano obbligati ad operare continuativamente fuori sede e quindi rappresentava un elemento integrativo della retribuzione, da computare ai fini del calcolo dell’indennità di anzianità; la Suprema Corte – nel confermare tale pronuncia – ha affermato il suddetto principio di diritto).

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Cass. civ. n. 5409/1985

Qualora, nel sottoscrivere il documento negoziale, la parte inserisca in esso una dichiarazione aggiuntiva (nella specie, riserva di interessi di mora e danni sollevata dall’appaltatore di opera pubblica in sede di regolarizzazione per iscritto di un contratto verbale che aveva già avuto esecuzione), tale dichiarazione aggiuntiva viene a costituire elemento integrante del documento medesimo, e deve essere quindi valutata per individuare la comune intenzione dei contraenti alla stregua del complessivo contenuto dell’atto, e non può pertanto essere qualificata come mero elemento extratestuale, né come comportamento di un contraente posteriore alla conclusione del contratto.

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Cass. civ. n. 4641/1985

L’interpretazione di una clausola contrattuale, in applicazione dell’art. 1362 primo comma c.c., non può essere fondata sul solo senso letterale delle parole usate, qualora questo, divergendo dal complessivo spirito e contenuto del contratto, non sia di per sé idoneo ad evidenziare la comune intenzione delle parti. (Nella specie, in una polizza di assicurazione contro il furto in appartamento, era inserita una clausola che subordinava la copertura assicurativa alla chiusura, con avvolgibili ed altri adeguati congegni, delle finestre. I giudici del merito avevano affermato che il suddetto patto escludeva l’indennizzo, in caso di finestre aperte, anche nell’ipotesi di furto diurno in presenza degli abitanti dell’appartamento. La S.C. ha ritenuto tale interpretazione non conforme al criterio ermeneutico di cui sopra, dovendosi accertare se la lettera della clausola comportava l’effettiva intenzione di imporre all’assicurato un onere di perenne chiusura delle finestre).

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Cass. civ. n. 1198/1982

Il giudice, nell’interpretare il contratto, non può mai prescindere dalla ricerca della comune intenzione dei contraenti, posto che l’oggetto della ricerca ermeneutica è proprio tale comune intenzione, rispetto alla quale il senso letterale delle parole adoperate dai contraenti si pone come il primo degli strumenti di interpretazione. Pertanto, anche se le espressioni usate nel contratto siano di chiara e non equivoca significazione, la ricerca della comune intenzione dei contraenti lungi dall’essere esclusa, può solo ritenersi conclusa ove l’elemento letterale assorba ed esaurisca ogni altro strumento d’interpretazione soggettiva.

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Cass. civ. n. 5294/1977

Il principio in claris non fit interpretatio non è accolto dal sistema dell’interpretazione previsto dal nostro ordinamento che, invece, attribuisce al giudice il potere-dovere di stabilire se la comune volontà delle parti risulti in modo chiaro e immediato dalla dizione letterale del contratto o se occorra accertarla mediante indagini ulteriori. Ciò comporta che il giudice intanto può limitare la propria disamina al senso letterale delle parole in quanto, a suo giudizio, la comune volontà delle parti emerga in modo certo e immediato dalle espressioni adoperate, mentre deve ricorrere ai criteri legali sussidiari di interpretazione quando tali espressioni gli si presentino ambigue o, comunque, insufficienti per l’individuazione di quella volontà; ond’è che la stessa questione an in claris versetur assume carattere di questione di fatto, rimessa come tale al giudice di merito, e la cui soluzione non è censurabile in sede di legittimità se dalla sentenza emergono adeguate ragioni che esplicitamente o anche implicitamente la giustifichino.

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Cass. civ. n. 5281/1977

In tema di interpretazione del contratto, così come del negozio giuridico in genere, il sindacato della Corte di cassazione può riguardare la delineazione della fattispecie astratta, nonché la riconduzione ad essa della specie in concreto accertata, trattandosi di operazioni implicanti l’applicazione di norme di diritto, ma non anche l’individuazione degli elementi costitutivi di quella specie concreta, ivi compresa l’identificazione delle parti del contratto e la ricerca del contenuto e della portata delle sue clausole, la quale si traduce in una indagine e valutazione di fatto, affidata esclusivamente al giudice del merito, e censurabile in sede di legittimità solo per il caso di violazione delle norme ermeneutiche, ovvero di illogicità ed inadeguatezza della motivazione, tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione.

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Cass. civ. n. 5146/1977

In materia di interpretazione dei contratti il principio di gerarchia vige non solo tra le norme meramente interpretative e quelle integrative, nel senso che le prime hanno la precedenza sulle seconde, ma anche tra le stesse norme interpretative, anch’esse suscettibili di una graduale applicazione in funzione del carattere sussidiario di una norma rispetto alle altre; pertanto il ricorso al comportamento delle parti successivo alla stipulazione del negozio ha carattere sussidiario rispetto all’esame del contenuto del contratto ed è, quindi, consentito solo nell’ipotesi in cui il giudice non possa ricostruire la comune volontà delle parti attraverso le espressioni del testo negoziale.

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Cass. civ. n. 4693/1977

Le norme del c.c. sull’interpretazione dei contratti debbono essere divise in due gruppi: il primo, che comprende gli artt. 1362-1365, regola l’interpretazione soggettiva (o storica) del contratto, in quanto tende a porre in luce la concreta intenzione comune delle parti; il secondo, costituito dagli artt. 1366-1370, disciplina l’interpretazione oggettiva, cosa detta perché tende ad eliminare ambiguità e dubbi. Tra i due gruppi di norme esiste un rapporto di subordinazione logica del secondo al primo, dato che l’interprete può far ricorso alle regole dell’interpretazione oggettiva soltanto quando non possa determinare senza dubbiezza la comune volontà delle parti. Ai due gruppi si aggiunge l’art. 1371, la cui applicazione, volta a realizzare l’equo contemperamento degli interessi delle parti, è doppiamente subordinata all’accertata insufficienza dei criteri interpretativi contenuti negli articoli che precedono.

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Cass. civ. n. 2225/1977

Il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto ed idoneo ad interpretarlo può consistere anche nella loro attività processuale, purché rappresenti espressione di volontà comuni e coincidenti.

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Cass. civ. n. 221/1977

Non è inibito al giudice, al fine di identificare la portata della volontà negoziale, di trarre argomento di prova anche da contratti conclusi da una delle parti con terzi.

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Cass. civ. n. 3480/1976

Le convenzioni preliminari e le trattative precontrattuali possono fornire elementi d’interpretazione solo per l’identificazione della natura e dell’oggetto del contratto definitivo, ma al fine di determinare ed interpretare il contenuto delle singole pattuizioni occorre far capo soltanto al contratto definitivo, il quale assorbe le convenzioni e le trattative predette togliendo ad esse ogni efficacia negoziale e dettando l’unica disciplina dei rapporti che esse contemplavano, atteso che l’autonomia contrattuale delle parti nel concludere il contratto definitivo è libera sia d’introdurre nuove clausole sia di modificare od espungere altre contenute negli accordi preliminari, dando vita alla definitiva e stabile normazione del regolamento dei loro interessi.

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Cass. civ. n. 1590/1976

Nei contratti conclusi mediante la sottoscrizione di moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti per la disciplina uniforme di una serie di rapporti, l’elemento letterale ricavato dal contesto del contratto può costituire espressione sicura della comune intenzione delle parti quando, in relazione all’oggetto della pattuizione controversa ed alle particolari circostanze del caso, essa possa ritenersi frutto dell’effettiva autonomia negoziale di entrambi i contraenti, dovendosi altrimenti fare ricorso agli elementi sussidiari di interpretazione indicati negli artt. 1362 e ss. c.c.

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Cass. civ. n. 91/1976

In tema di interpretazione del contratto, compito del giudice del merito è quello di determinare la comune intenzione delle parti, come trasfusa nel contratto stesso, e, pertanto, l’indagine sui motivi o sulle cause che hanno indotto i contraenti a negoziare, ma che non sono esternate in clausole del negozio, potrà essere rilevante, ove tali motivi o cause abbiano dato luogo a comportamenti esteriori, solo al fine di trarne elementi utili per l’individuazione di detta comune intenzione, secondo il criterio ermeneutico sussidiario di cui all’art. 1362 secondo comma c.c., ma non al fine di accertare una volontà non risultante dal contratto.

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Cass. civ. n. 2858/1975

Una dichiarazione diretta, dopo la conclusione del contratto, da un contraente all’altro, e da quest’ultimo accolta senza dissenso, ben può essere utilizzata dal giudice del merito, ai sensi dell’art. 1362 secondo comma c.c., come criterio suppletivo per la determinazione della comune intenzione delle parti, e per la conferma o meno del convincimento tratto dall’esame dei patti contrattuali.

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Cass. civ. n. 2705/1975

Clausola di stile è solo quella che si limita a riprodurre una costante prassi stilistica di determinati atti, senza alcun riscontro nella volontà delle parti.

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Cass. civ. n. 3082/1973

Per determinare la comune intenzione delle parti è lecito tenere conto solo dei comportamenti che siano in rapporto diretto, se non immediato, con la stipulazione e l’esecuzione del contratto da interpretare. Tali non possono essere considerati i comportamenti tenuti fuori da ogni contrasto con i controinteressati, a soli fini fiscali, quali le denunce di successione o operazioni bancarie del singolo avente causa di uno dei contraenti, nei quali comportamenti possono avere avuto parte determinante considerazioni estranee ad un’esatta ricognizione della portata del contratto a suo tempo stipulato. L’art. 1362, comma secondo, c.c., nel disporre che «per determinare la comune intenzione delle parti si deve valutare il loro comportamento» fa riferimento al comportamento delle parti indicate nel primo comma dell’articolo e non già al comportamento degli eredi od aventi causa, che costituisce espressione di una volontà aggiuntiva che non può essere cumulata con quella negoziale.

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Cass. civ. n. 2092/1973

La favorevole disposizione a transigere una lite non può essere assunta a criterio di interpretazione di un contratto ai sensi dell’art. 1362 c.c. Il comportamento delle parti, al quale questa norma si riferisce, concerne invero quell’attività postcontrattuale che sia diretta alla realizzazione degli interessi regolati dal negozio e, per questo, offre uno strumento sussidiario di accertamento della volontà negoziale non chiaramente desumibile dal testo del contratto.

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Cass. civ. n. 2067/1973

L’art. 1362 c.c., nel prescrivere in sede di interpretazione contrattuale che il giudice ai fini della individuazione della comune intenzione delle parti debba valutare il loro comportamento complessivo, richiede non la valutazione di ogni singolo atto posto in essere dalle medesime, ma la considerazione globale della loro condotta in relazione agli elementi di fatto che possono avere importanza per l’interpretazione del contratto.

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Cass. civ. n. 43/1971

Nei contratti nei quali una delle parti sia un soggetto della P.A. il principio della presunzione di legittimità dell’azione amministrativa può servire come mezzo sussidiario di interpretazione, per ricercare, nei casi dubbi, quale sia stata la reale volontà dell’amministrazione.

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