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Articolo 336 Codice di procedura civile — Effetti della riforma o della cassazione

Articolo 336 Codice di procedura civile — Effetti della riforma o della cassazione

La riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata.

La riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata.

L’eventuale comma dell’articolo ricompreso fra parentesi quadre è stato abrogato.

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Aggiornato al 1 gennaio 2020
Il testo riportato è reso disponibile agli utenti al solo scopo informativo. Pertanto, unico testo ufficiale e definitivo è quello pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale Italiana che prevale in casi di discordanza rispetto al presente.
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Massime correlate

Cass. civ. n. 14103/2018

L’atto di ricostituzione del rapporto lavorativo, avvenuto in esecuzione di sentenza (indifferentemente di reintegra ex art. 18 st.lav. ovvero di riammissione in servizio per effetto della ritenuta illegittimità del termine) successivamente riformata o cassata, viene travolto insieme con quest’ultima, in applicazione dell’effetto espansivo esterno di cui all’art. 336, comma 2, c.p.c., che priva di titolo il prosieguo del rapporto dopo che ne sia venuta meno, a monte, l’originaria statuizione di ripristino, senza che sia necessario un atto di recesso da parte del datore di lavoro.

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Cass. civ. n. 20145/2017

La restituzione delle somme corrisposte in virtù della provvisoria esecuzione di un’ordinanza immediatamente esecutiva, concessa dal giudice di prime cure a titolo di provvisionale ex art. 24 della l. n. 990 del 1969 – ed implicitamente revocata dalla sentenza di primo grado di rigetto della domanda risarcitoria – ben può essere chiesta per la prima volta in appello o con la comparsa di risposta contenente impugnazione incidentale avverso detta sentenza, atteso che tale istanza, oltre ad essere conforme al principio di economia dei giudizi, non altera i termini della controversia e non costituisce, perciò, domanda nuova.

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Cass. civ. n. 18611/2013

Quando l’adempimento, volontario o coattivo, della condanna al pagamento pronunciata in primo grado sia avvenuto in parte prima della proposizione dell’appello e in parte nel corso del giudizio di appello, la domanda di restituzione dell’intero, in conseguenza della riforma della sentenza impugnata, può essere proposta dall’appellante, senza incorrere in decadenza, fino alla precisazione delle conclusioni, atteso che il pagamento parziale non consente di ritenere adempiuta la prestazione della cui restituzione trattasi e considerato che, ipotizzando la necessità di un’autonoma domanda, in altro giudizio, per la parte residua del credito frazionato, si realizzerebbe un effetto inflattivo di moltiplicazione dei giudizi non rispondente al principio costituzionale della “durata ragionevole” del processo.

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Cass. civ. n. 3074/2013

La cassazione con rinvio della sentenza di appello confermativa di quella di primo grado costituente titolo esecutivo, ove il precetto non seguito dall’esecuzione sia stato intimato sulla base della combinazione tra sentenza di primo grado e sentenza di appello, ovvero ove l’esecuzione abbia avuto inizio successivamente alla sentenza di appello, determina, rispettivamente, la caducazione del precetto e dell’esecuzione a norma dell’art. 336, secondo comma, c.p.c..
La cassazione con rinvio della sentenza di appello confermativa di quella di primo grado costituente titolo esecutivo, ove l’esecuzione abbia avuto inizio sulla base della decisione del giudice di prime cure e sia proseguita con atti successivi alla pronuncia della sentenza di appello poi cassata, determina – a norma dell’art. 336, secondo comma, c.p.c. – la caducazione soltanto di tali atti successivi, mentre restano fermi quelli pregressi, potendo riprendere l’esecuzione dall’ultimo di essi, salvo che, ai sensi dell’art. 283 c.p.c., il giudice del rinvio sospenda l’esecutività della sentenza di primo grado, delibando le ragioni della disposta cassazione.

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Cass. civ. n. 9658/2012

La sentenza del giudice di appello che dichiari inammissibile l’appello principale contro decisione già appellata, erroneamente omettendo di convertirlo in appello incidentale, deve essere cassata con rinvio, producendosi, qualora il giudice di rinvio accolga l’appello convertito, gli effetti indicati dall’art. 336 c.p.c., secondo il quale la riforma ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata nonché sui provvedimenti e gli atti dipendenti dalla sentenza riformata, senza che osti il giudicato formatosi su parti, provvedimenti e atti, colpiti dall’effetto espansivo, che resta condizionato dall’esito della decisione sulle questioni ancora pendenti.

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Cass. civ. n. 3129/2011

Il principio dettato dall’art. 336 c.p.c., per il quale la riforma o la cassazione parziale della sentenza ha effetto anche sui capi della stessa dipendenti dalla parte riformata o cassata, trova applicazione rispetto ai capi di sentenza non impugnati autonomamente, ma necessariamente collegati ad altro capo che sia stato impugnato. Ne consegue che, in relazione a pronuncie di risarcimento del danno per dequalificazione del lavoratore, cassata o riformata la sentenza sul capo relativo alla dequalificazione, viene travolto anche il capo riguardante l’accertamento della eventuale esistenza di un danno professionale o biologico, trattandosi di pronunzia che presuppone la stabilità del capo riguardante la dequalificazione, a nulla rilevando la mancata impugnazione del capo relativo al danno.

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Cass. civ. n. 16152/2010

La richiesta di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado, essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata, non costituisce domanda nuova ed è perciò ammissibile in appello; la stessa deve, peraltro, essere formulata, a pena di decadenza, con l’atto di appello, se proposto successivamente all’esecuzione della sentenza, essendo invece ammissibile la proposizione nel corso del giudizio soltanto qualora l’esecuzione della sentenza sia avvenuta successivamente alla proposizione dell’impugnazione. Resta in ogni caso inammissibile la domanda di restituzione proposta con la comparsa conclusionale in appello, atteso che tale comparsa ha carattere meramente illustrativo di domande già proposte, non rilevando in contrario che l’esecuzione della sentenza sia successiva all’udienza di conclusioni ed anteriore alla scadenza del termine per il deposito delle comparse.

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Cass. civ. n. 10124/2009

L’art. 336 c.p.c. (nel testo novellato dell’art. 48 della legge 26 novembre 1990, n. 353), disponendo che la riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata, comporta che, con la pubblicazione della sentenza di riforma, vengano meno immediatamente sia l’efficacia degli atti o provvedimenti di esecuzione spontanea o coattiva della stessa, rimasti privi di qualsiasi giustificazione, con conseguente obbligo di restituzione della somma pagata e di ripristino della situazione precedente. Ne consegue che la richiesta di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado non costituisce domanda nuova ed è perciò ammissibile in appello; la stessa deve, peraltro, essere formulata, a pena di decadenza, con l’atto di appello, se proposto successivamente all’esecuzione della sentenza, essendo invece ammissibile la proposizione nel corso del giudizio soltanto qualora l’esecuzione della sentenza sia avvenuta successivamente alla proposizione dell’impugnazione.

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Cass. civ. n. 5323/2009

L’art. 336 cod. proc. civ., nella nuova formulazione introdotta dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, non subordina più al passaggio in giudicato della sentenza di riforma i cosiddetti effetti espansivi esterni, comportando perciò non soltanto la caducazione immediata della sentenza riformata (le cui statuizioni vengono sostituite automaticamente da quelle della sentenza di riforma), ma altresì l’immediata propagazione delle conseguenze della sentenza di riforma agli atti dipendenti dalla sentenza impugnata. Ove, peraltro, la sentenza di riforma sia stata, a sua volta, oggetto di cassazione, non possono perdurare tali effetti espansivi esterni, posto che, in detta ipotesi, viene meno il loro stesso presupposto e, qualora il giudice del rinvio confermi la sentenza di primo grado, la temporanea inefficacia di quest’ultima pronuncia nel periodo tra sentenza di riforma e quella di cassazione non assume alcun rilievo ai fini della sussistenza dei diritti da essa riconosciuti, con conseguente risarcibilità delle relative lesioni eventualmente realizzatesi “medio tempore”.

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Cass. civ. n. 25143/2008

Allorché venga riformata in appello una sentenza già posta in esecuzione forzata, il debitore esecutato ha diritto alla restituzione non solo del capitale pagato sulla base del titolo successivamente riformato, ma anche delle somme corrisposte a titolo di rifusione delle spese del giudizio di esecuzione sostenute dal creditore esecutante, e ciò a prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala fede di quest’ultimo.

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Cass. civ. n. 24821/2008

A norma dell’art. 336 c.p.c., la sentenza di riforma resa in grado d’appello pone nel nulla la sentenza di primo grado, che perde efficacia in quanto caducata e sostituita immediatamente — in tutto o nei limiti dei capi riformati — dalla pronuncia di secondo grado; ne consegue che, ove la sentenza di primo grado sia stata riformata in punto di regolazione delle spese processuali, la data della pronuncia di appello — determinando il nuovo assetto degli interessi — segna il momento della nascita del relativo credito in favore della parte vittoriosa, ed è da quel momento (e non dalla data della pronuncia di primo grado) che decorrono gli interessi legali sulla somma liquidata.

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Cass. civ. n. 21901/2008

La domanda di restituzione delle somme pagate in esecuzione di una sentenza, successivamente cassata in sede di legittimità, va proposta esclusivamente dinanzi al giudice competente per effetto del rinvio, e non dinanzi al giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie, anche nel caso in cui il giudizio di rinvio non sia stato mai introdotto ovvero si sia estinto.

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Cass. civ. n. 15461/2008

Le pretese restitutorie conseguenti alla riforma in appello della sentenza di primo grado possono trovare ingresso nella fase di gravame al fine di precostituire il titolo esecutivo per la restituzione (non conseguendo tale effetto alla mera sentenza di riforma e fermo restando che la condanna restitutoria deve essere subordinata al passaggio in giudicato e, in ogni caso, non può essere eseguita prima di quel momento ), in tal senso deponendo sia evidenti ragioni di economia processuale sia l’analogia con quanto stabilito nell’art. 96, comma secondo, e nell’art. 402, comma primo, c.p.c., rispettivamente per le esecuzioni ingiuste e per la pronuncia revocatoria.

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Cass. civ. n. 10765/2008

In tema di omessa pronuncia sulla specifica domanda di restituzione delle somme pagate dall’appellante in esecuzione della sentenza di primo grado, in caso di accoglimento dell’appello senza che si dia atto nel relativo provvedimento della sussistenza di tutti i presupposti per la restituzione, l’omissione non integra un mero errore materiale emendabile con l’apposito procedimento correttivo, risultando violato l’art. 112 c.p.c.; ne consegue che la sentenza va censurata con il ricorso per cassazione previsto per gli errores in procedendo dall’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.

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Cass. civ. n. 7485/2008

Quando è proposta una domanda principale ed una domanda riconvenzionale che abbia come presupposto il rigetto della prima, l’accoglimento della domanda principale implica l’esplicito rigetto della riconvenzionale e, ove venga impugnata la sentenza quanto al detto accoglimento, il rigetto della riconvenzionale non deve essere assoggettato ad impugnazione, in quanto, per effetto del nesso di dipendenza dall’accoglimento della domanda principale, la riforma o la cassazione della sentenza quanto a quest’ultimo estendono i loro effetti, a norma dell’art. 336, primo comma, c.p.c., al rigetto implicito della riconvenzionale.

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Cass. civ. n. 8829/2007

È ammissibile la ripetizione delle somme pagate in esecuzione della sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, successivamente riformata in appello (con sentenza confermata dalla Corte Suprema di Cassazione), pur non ricorrendo in tal caso un’ipotesi di condictio indebiti (art. 2033 c.c.), dalla quale differisce per natura e funzione, laddove non vengono in rilievo — tra l’altro — gli stati soggettivi di buona o mala fede dell’accipiens atteso che il diritto alla restituzione sorge direttamente in conseguenza della riforma della sentenza, la quale, facendo venir meno ex tunc e definitivamente il titolo delle attribuzioni in base alla prima sentenza, impone di porre la controparte nella medesima situazione in cui si trovava in precedenza. Ne consegue che non incorre nel vizio di omessa pronuncia il giudice di appello il quale, nel riformare completamente la decisione impugnata, non dispone la condanna della parte vittoriosa in primo grado a restituire gli importi ricevuti in forza dell’esecuzione della sentenza appellata, atteso che tale obbligo sorge automaticamente, quale effetto consequenziale, dalla riforma della sentenza.

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Cass. civ. n. 26171/2006

L’art. 336 c.p.c. (nel testo novellato dall’art. 48 della legge 26 novembre 1990, n. 353), disponendo che la riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti ed agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata, comporta che, non appena sia pubblicata la sentenza di riforma, vengono meno immediatamente sia l’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, sia l’efficacia degli atti o provvedimenti di esecuzione spontanea o coattiva della stessa, rimasti privi di qualsiasi giustificazione, con conseguente obbligo di restituzione delle somme pagate e di ripristino della situazione precedente. Ne consegue ulteriormente che, nel giudizio di appello, non configura una domanda nuova la richiesta di restituzione delle somme versate in forza della provvisoria esecutorietà della sentenza di primo grado.

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Cass. civ. n. 24354/2006

Ai sensi dell’art. 336 c.p.c., la riforma non soltanto pone nel nulla la sentenza non definitiva che ne costituisce l’oggetto immediato, ma estende i propri effetti ai provvedimenti ed agli atti dipendenti da quest’ultima, e quindi anche alla sentenza definitiva, ove logicamente connessa a quella non definitiva, con la quale interrompe dunque il nesso di consequenzialità logica e necessaria posto dall’art. 279 c.p.c., ma condizionato alla mancata riforma di questa decisione. Ne consegue che, in controversia relativa al risarcimento dei danni da illegittima requisizione di immobili, ove il giudice di primo grado, con statuizione non definitiva, abbia dichiarato responsabile la sola amministrazione statale, emettendo condanna generica al risarcimento dei danni e rinviando all’ulteriore corso del giudizio la liquidazione del concreto pregiudizio e, con statuizione definitiva, abbia estromesso dal giudizio l’amministrazione comunale, ritenendola estranea al rapporto obbligatorio controverso, e tali statuizioni, fatte oggetto di impugnazione immediata, siano state riformate, in sede di rinvio, dal giudice dell’impugnazione, che, con sentenza passata in giudicato, abbia dichiarato la sola amministrazione comunale tenuta al risarcimento di tutti i danni derivanti dalla illegittima requisizione degli immobili, l’assetto di interessi che ne risulta è quello introdotto dalla sentenza di riforma, che si sostituisce interamente alle statuizioni di quella riformata, con effetto di vincolo anche in relazione alla prosecuzione del giudizio davanti al giudice di primo grado. (Nella specie, invece, la pronuncia impugnata — annullata dalla Suprema Corte — aveva ritenuto che la sentenza emessa in sede di rinvio consentisse al privato esclusivamente di intraprendere un nuovo giudizio nei confronti dell’amministrazione comunale per ottenere la liquidazione del danno, stante la preclusione ad emettere la relativa pronuncia in relazione ad una parte estromessa dal giudizio con sentenza definitiva, benché riformata).

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Cass. civ. n. 17330/2005

Il venir meno, a seguito di sentenza della Corte di cassazione, della pronuncia che aveva riconosciuto un rapporto di lavoro subordinato in luogo di un rapporto di lavoro autonomo e disposto il ripristino del rapporto con la reintegrazione del lavoratore licenziato, comporta, da un lato, la caducazione del diritto a differenze retributive — che trovavano titolo in parametri retributivi riferiti a lavoratori subordinati — e al risarcimento dei danni per l’illegittimità del licenziamento e, dall’altro, che il definitivo accertamento della natura autonoma del rapporto impedisce l’applicazione dell’art. 2126 c.c., rendendo irrilevante la messa a disposizione delle energie lavorative. Pertanto, in conseguenza dell’affermazione definitiva della diversa qualificazione giuridica del rapporto di lavoro — autonomo anzichè subordinato — e del venir meno, perciò, del titolo in base al quale erano state incassate le relative somme da parte del lavoratore, trova applicazione l’art. 336 c.p.c. che legittima il datore di lavoro a richiedere la restituzione di quelle somme.

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Cass. civ. n. 12190/2004

Le domande di restituzione o di riduzione in pristino della parte che ha eseguito una prestazione in base ad una sentenza poi cassata (nella specie, sentenza del giudice ordinario di condanna al pagamento di somma di denaro) può essere proposta, oltre che nell’eventuale giudizio di rinvio (ove la cassazione della sentenza sia stata pronunciata con rinvio ad altro giudice), anche in separata sede (come nel caso, quale quello di specie, di cassazione senza rinvio della sentenza del G.O. per avere la S.C. ravvisato la giurisdizione del giudice amministrativo), atteso che le predette domande sono del tutto autonome da quelle dell’eventuale giudizio di rinvio, assolvendo all’esigenza di garantire all’interessato la possibilità di ottenere al più presto la restaurazione della situazione patrimoniale anteriore alla decisione cassata, a prescindere dal successivo sviluppo del giudizio (nella specie, da celebrarsi dinanzi al giudice amministrativo, e non a quello ordinario).

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Cass. civ. n. 3054/2004

La cassazione della pronuncia resa sulla domanda principale, per difetto di giurisdizione del giudice adito, estende i suoi effetti, ai sensi dell’art. 336 c.p.c., non soltanto alla statuizione inerente al rimborso delle spese in favore della parte che ha proposto detta domanda principale, ma anche alla decisione sulla domanda di manleva avanzata da un convenuto nei confronti di altro convenuto, giacchè la pretesa di uno dei convenuti di essere sollevato dall’altro, con riguardo agli effetti dell’eventuale soccombenza nel rapporto con la parte attrice, introduce in causa una domanda di garanzia condizionata all’indicata evenienza, di tal che l’annullamento della statuizione di accoglimento della domanda principale elide il presupposto della pronuncia sulla rivalsa, non suscettibile di vita autonoma una volta che sia venuta meno detta soccombenza.

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Cass. civ. n. 567397/2003

In materia di ripartizione del trattamento pensionistico di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite, le somme percepite dall’uno o dall’altro coniuge in base a sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, riformata in appello, sono irripetibili nei soli limiti in cui siano riconducibili a prestazioni che, per la loro misura e le condizioni economiche del percettore, possano ritenersi dirette ad assicurare unicamente i mezzi economici necessari per far fronte alle esigenze di vita, così da essere normalmente consumate per adempiere a tale loro destinazione.

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Cass. civ. n. 10615/2003

Il principio, fissato dall’art. 336, primo comma, c.p.c., secondo il quale la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti da quella cassata (cosiddetto effetto espansivo) comporta che la caducazione, in sede di legittimità, della pronuncia impugnata si estende alla statuizione relativa alle spese processuali, con necessità della rinnovazione della relativa statuizione all’esito della lite.

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Cass. civ. n. 6579/2003

Il diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione di una decisione successivamente cassata, ovvero di sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, successivamente riformata in appello, sorge per il solo fatto della cassazione o della riforma della sentenza e può essere richiesto automaticamente, se del caso, anche con procedimento monitorio.

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Cass. civ. n. 17551/2002

Proposta dall’utente del servizio idrico domanda di restituzione, dinanzi al giudice ordinario, delle somme indebitamente versate a titolo di canone di depurazione delle acque reflue, allorché il giudice abbia condannato in solido tanto l’ente pubblico destinatario del canone quanto l’azienda speciale che aveva proceduto all’attività di riscossione, accogliendo nel contempo la domanda di garanzia interposta da quest’ultima, in quanto rivestente la posizione di mero adiectus solutionis causa, nei confronti dell’altro condebitore in solido, la mancata impugnazione, da parte dell’azienda speciale, della condanna solidale implica il passaggio in giudicato, nei suoi confronti, della statuizione di condanna, con il riconoscimento implicito della giurisdizione del giudice adito; mentre l’accoglimento dell’impugnazione — promossa ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 1, c.p.c. dall’ente pubblico condebitore — per carenza di giurisdizione di detto giudice, non comporta la caducazione, in via di estensione ex art. 1 c.p.c. dall’ente pubblico condebitore — per carenza di giurisdizione di detto giudice, non comporta la caducazione, in via di estensione ex art. 336 c.p.c., della pronuncia di accoglimento della domanda di garanzia, non sussistendo alcun rapporto di dipendenza di detta domanda dalla pronuncia di difetto di giurisdizione del giudice adito.

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Cass. civ. n. 16170/2001

Nel giudizio di appello, non soltanto la richiesta di restituzione delle somme pagate alla controparte in esecuzione della sentenza di primo grado non configura una domanda nuova — essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata — e può dunque essere proposta per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni, ma detta restituzione può, altresì, essere disposta di ufficio dal giudice, atteso che l’art. 336 c.p.c. (nel testo novellato dall’art. 38 della legge 26 novembre 1990, n. 353), secondo cui la riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti ed agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata, comporta che a seguito della sentenza di riforma vengono meno immediatamente — al fine di scoraggiare successive impugnazioni proposte a scopo dilatorio — sia l’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, sia l’efficacia degli atti o provvedimenti di esecuzione spontanea o coattiva della stessa, conseguentemente rimasti privi di qualsiasi giustificazione, con la ulteriore conseguenza che il giudice di appello ha il potere di adottare direttamente i provvedimenti capaci di ripristinare la situazione precedente, non diversamente da quanto accade nella situazione disciplinata dall’art. 669 novies c.p.c., in cui il giudice, nel dichiarare l’inefficacia del provvedimento cautelare, deve dare direttamente le disposizioni necessarie a ripristinare la situazione precedente.

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Cass. civ. n. 13635/2001

Le pretese restitutorie conseguenti alla riforma in appello della sentenza di primo grado possono trovare ingresso nella fase di gravame, pur in assenza di una norma specifica nel codice di rito, per precostituire il titolo esecutivo per la restituzione di quanto corrisposto dal soccombente per effetto della sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, ma l’eseguibilità del capo restitutorio della sentenza di appello che accolga la relativa domanda è necessariamente subordinata alla cessazione degli effetti esecutivi della sentenza riformata, e cioè al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, senza che, perciò, occorra che i giudici di appello dispongano un’esplicita condizione in tal senso.

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Cass. civ. n. 4739/2001

Qualora la sentenza di appello contenga una pluralità di statuizioni, l’eventuale ricorso per cassazione può giovare solo alla parte che abbia esercitato il diritto di impugnazione, per rimuovere quelle ad essa sfavorevoli, mentre le altre, se non censurate dalla controparte con ricorso incidentale, restano coperte dal giudicato. Pertanto, quando la Corte di cassazione, accogliendo il ricorso della parte parzialmente soccombente non onerata dalle spese processuali, cassi la sentenza della Corte di appello, rinviando per il riesame ad altra sezione della stessa Corte cui affida il compito di riesaminarlo e di decidere sulle spese del giudizio di legittimità, il giudice di rinvio può decidere solo su tali punti e la statuizione sulle spese del merito, se non ha formato oggetto di ricorso incidentale, passa in giudicato, senza che in contrario possa invocarsi l’effetto espansivo interno della cassazione parziale stabilito dall’art. 336, comma primo, c.p.c.; atteso che la regola della dipendenza del capo di sentenza concernente le spese processuali da quelli recanti le statuizioni del merito opera nei limiti della soccombenza effettiva della parte impugnante e, quindi, con esclusivo riguardo alle ipotesi in cui il giudice dell’impugnazione possa rivedere in senso più favorevole al vincitore anche la decisione sulle spese non direttamente impugnata, non anche in quella, inversa, in cui la statuizione dipendente non implica soccombenza di detta parte ma dell’altra, la quale invece non abbia proposto al riguardo alcuna doglianza.

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Cass. civ. n. 1720/2001

La cassazione, anche se con rinvio, della sentenza non definitiva, che abbia pronunziato positivamente sull’an debeatur, comporta la caducazione della sentenza sul quantum, dipendendo quest’ultima totalmente dalla prima e tenendo conto che essa, una volta annullata la pronunzia sull’an, viene ad essere privata del proprio fondamento logico-giuridico, che non può essere sostituito ex post dalla nuova pronunzia emessa in sede di rinvio; ne deriva l’inammissibilità del ricorso per cassazione proposto avverso l’indicata sentenza sul quantum, ma non anche di quello rivolto a censurare il capo della sentenza impugnata integrante una autonoma pronuncia processuale. (Nella specie la Corte di merito, nel determinare il quantum risarcibile, aveva anche dichiarato inammissibile l’appello incidentale).

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Cass. civ. n. 8745/2000

L’art. 336 c.p.c., nella nuova formulazione introdotta dalla legge n. 353 del 1990, non subordina più al passaggio in giudicato della sentenza di riforma i cosiddetti effetti espansivi esterni, comportando perciò non soltanto la caducazione immediata della sentenza riformata (le cui statuizioni vengono sostituite automaticamente da quelle della sentenza di riforma), ma altresì l’immediata propagazione della conseguenze della sentenza di riforma agli atti dipendenti dalla sentenza impugnata; ne consegue che la riforma in appello della sentenza che abbia accertato l’illegittimità di un licenziamento e ordinato la reintegrazione del lavoratore comporta non soltanto la caducazione dell’accertamento e dell’ordine ripristinatorio, ma altresì il venir meno della ricostituzione del rapporto di lavoro provvisoriamente riaffermata da quell’ordine e la restituzione al licenziamento della sua piena efficacia estintiva fin dalla data della sua intimazione.

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Cass. civ. n. 8263/2000

Le somme corrisposte dal datore di lavoro in esecuzione della sentenza che ordina la reintegra nel posto di lavoro costituiscono, ex art. 18 legge n. 300 del 1970 (nel nuovo testo introdotto dalla legge 11 maggio 1990, n. 108), risarcimento del danno ingiusto subito dal lavoratore per l’illegittimo licenziamento; pertanto, in caso di riforma della sentenza che dichiara l’illegittimità, venendo a cadere l’illecito civile ascritto al datore di lavoro e non sussistendo più obbligo di risarcimento a suo carico, le somme percepite dal lavoratore perdono il loro titolo legittimante e debbono essere conseguentemente restituite fin dal momento della riforma, atteso che per il nuovo testo dell’art. 336, secondo comma, c.p.c. non è più necessario il passaggio in giudicato della sentenza di secondo grado.

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Cass. civ. n. 5485/2000

Con riguardo agli effetti della riforma della sentenza pretorile di reintegrazione del lavoratore licenziato, per le pretese restitutorie che sono limitate alla somma corrisposta dal datore di lavoro a titolo di risarcimento del danno valgono i principi ordinari, in base ai quali, se viene meno il fatto ingiusto — costituito dal licenziamento illegittimo — necessariamente viene meno anche il fatto che di esso è diretta conseguenza; invece sono irripetibili le retribuzioni riscosse o maturate fino alla sentenza d’appello dichiarativa della legittimità del licenziamento, in riforma della pronuncia di primo grado che lo aveva ritenuto illegittimo.

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Cass. civ. n. 4362/1993

La cassazione o la riforma con sentenza passata in giudicato della sentenza non definitiva si estendono alle parti, da questa dipendenti, della successiva sentenza definitiva, con la conseguenza che, ove sopravvengano in pendenza dell’impugnazione proposta contro questa seconda sentenza, ne comportano l’inammissibilità per cessazione della «materia» dell’impugnazione medesima, anche quando si tratti di ricorso per cassazione, nel qual caso al rilievo dell’impedimento — documentabile ai sensi dell’art. 372 c.p.c. — è legittimata la stessa corte di legittimità e non il giudice di rinvio.

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Cass. civ. n. 5186/1991

Sebbene nel codice di rito manchi una norma specifica relativa alle pretese restitutorie conseguenti alla riforma in appello della sentenza di primo grado, tali pretese possono trovare ingresso nella fase di gravame predetta al fine di precostituire il titolo esecutivo per le restituzioni, fermo restando che la condanna restitutoria va subordinata al passaggio in giudicato e, in ogni caso, non può essere eseguita prima di quel momento.

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Cass. civ. n. 1589/1990

La riforma o la cassazione della sentenza non definitiva pone nel nulla le pronunce rese con la sentenza definitiva, in quanto dipendenti dalla sentenza riformata o cassata (art. 336 secondo comma c.p.c.). Pertanto, in pendenza di ricorso contro la sentenza non definitiva, la mancata impugnazione della sentenza definitiva, determinando un giudicato solo apparente, non può incidere sulla procedibilità del ricorso medesimo, né implicare cessazione della materia del contendere.

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Cass. civ. n. 1409/1990

A norma del secondo comma dell’art. 336 c.p.c., la riforma con sentenza passata in giudicato o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata: tra tali provvedimenti devono ricomprendersi anche le successive sentenze, che, pronunciate nello stesso procedimento, abbiano il loro necessario presupposto logico giuridico nella sentenza riformata o cassata. Pertanto nel caso di sentenza non definitiva, impugnata immediatamente con ricorso per cassazione, e di sentenza definitiva, emessa successivamente alla proposizione di detto ricorso e passata in giudicato per mancata tempestiva impugnazione, il ricorso per cassazione contro la prima sentenza, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza definitiva, rimane procedibile, perché l’eventuale cassazione della sentenza non definitiva porrebbe nel nulla le statuizioni della successiva sentenza definitiva, dovendo questa ultima, per il suo rapporto di dipendenza dalla prima pronuncia, ritenersi condizionata alla mancata cassazione della stessa, nonostante il suo passaggio in cosa giudicata formale.

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